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La carezza mancata e ritrovata: Anna Negri racconta il suo TONI, MIO PADRE all'Azzurro Scipioni

Resoconto esclusivo dell'incontro con Anna Negri all'Azzurro Scipioni per il film "Toni, mio padre". Un dialogo intimo su memoria e riconciliazione.

In una sala gremita, la regista presenta il suo viaggio intimo oltre il mito politico. "Ho dovuto sfondare la parete della macchina da presa per trovare un padre, non un leader".

[di Alex M. Salgado]

TONI, MIO PADRE

C'è un silenzio particolare che si crea all'interno dell'Azzurro Scipioni di Roma, quel tipo di quiete densa che precede le confessioni importanti. In questa sala che ha fatto della resistenza culturale la sua bandiera, la proiezione di Toni, mio padre non è stata una semplice visione, ma un rito collettivo di disvelamento. Quando le luci si riaccendono, Anna Negri, davanti al pubblico non ha l'aria di chi ha appena mostrato un documentario storico, ma di chi ha appena depositato un fardello enorme, trasformandolo in luce.

"Questo non è un documentario, è una cartografia sentimentale". Una definizione che centra il cuore pulsante dell'opera: l'intenzione iniziale di preservare la memoria di una figura pubblica "eccezionale" si è dovuta arrendere presto all'urgenza emotiva di una figlia.

LEGGI LA NOSTRA RECENSIONE DI "TONI, MIO PADRE"

L'archeologia della memoria: Super 8 e tre anni di riprese 

Rispondendo alle domande del pubblico, Anna Negri svela la genesi faticosa del film, un processo durato circa tre anni, fatto di riprese frammentate, "una settimana un anno, due settimane un altro", impugnando la videocamera in prima persona prima ancora che arrivassero i riconoscimenti come il Premio Solinas. È stato un lavoro di scavo archeologico, reso possibile da un ritrovamento fortuito: uno scatolone di vecchi Super 8 dimenticati da trent'anni. "Li abbiamo fatti telecinemare e abbiamo trovato cose pazzesche", racconta la regista. Quelle immagini sgranate e calde, che mostrano la madre gettare una lettera nell'acqua o momenti di una "Golden Age" familiare precedente al trauma, sono diventate il controcanto intimo alla "Grande Storia" fredda e impersonale dei telegiornali dell'epoca. Un anno di montaggio, affidato alla maestria di Ilaria Fraioli, è servito a dare forma a questo flusso di coscienza visivo, intrecciando i piani temporali per restituire la complessità di una vita durata novant'anni.

Rompere la gerarchia dello sguardo 

TONI, MIO PADRE
Uno dei temi cruciali emersi nel dibattito riguarda la posizione della regista. Come si filma un padre che è anche un gigante della filosofia? Anna Negri racconta di essersi confrontata con l'amico e documentarista Stefano Savona, arrivando a una scelta radicale: "Ho capito che era importante togliermi da questa posizione gerarchica dietro la macchina da presa, dove metti una persona quasi all'angolo". Entrare in scena, farsi riprendere mentre discute, litiga e incalza il genitore, è stato l'unico modo per costruire un'intimità reale, rompendo quella distanza che spesso rende i documentari freddi esercizi di stile. E Toni Negri ha accettato la sfida con una frase che risuona come la chiave di volta del film: "Io ho molto più interesse a conoscere te, che a riconoscere me".

L'uomo del Novecento e l'analfabetismo emotivo 

La discussione si accende sul concetto di "psicostoria": come i grandi eventi plasmino la psicologia degli individui. Anna Negri descrive il padre non come un mostro, ma come un tipico "uomo del Novecento", nato negli anni Trenta, orfano di guerra, abituato a sacrificare tutto per la realizzazione collettiva. Un uomo che, ammette la figlia, mancava di "educazione all'intelligenza emotiva". "Lui non capiva perché io e mio fratello eravamo così problematici, così risentiti", spiega Anna. Per un intellettuale che aveva fatto della prigionia uno spazio di studio, la fragilità dei figli era un enigma incomprensibile. È stato il cinema a costringerlo, forse per la prima volta, a guardare davvero quelle ferite.

Il potere salvifico dell'arte: fare della tragedia un "pezzo di teatro" 

Anna e Toni Negri
Il momento più intenso della serata arriva quando si tocca il finale del film e quel sussurrato "mi dispiace" di Toni. Non un pentimento politico, chiarisce Anna, ma la scusa di un padre che non aveva capito il dolore dei figli. Ma è nella chiusura dell'incontro che la regista regala la riflessione più preziosa sul senso ultimo del suo lavoro. "Vedi la funzione salvifica dell'arte", dice Anna, spiegando come il film abbia permesso a lei e al padre di "fare dell'arte di tutto questo, e farla insieme". Trasformare il dolore, le liti e le incomprensioni in dialoghi cinematografici, che la regista definisce "belli come un pezzo di teatro", ha permesso loro di oggettivare il vissuto, di guardarlo da fuori e, finalmente, di liberarsene. L'arte non cancella la storia, ma permette di maneggiarla senza bruciarsi.

Un piede finalmente "spigliato" 

Usciamo dall'Azzurro Scipioni con una certezza: la "vergogna indotta" dalla gogna mediatica si è dissolta. Alla domanda se si senta ancora, come recitava il titolo del suo libro, "con un piede impigliato nella storia", Anna Negri risponde con un sorriso liberatorio: "No, mi sono 'spigliata". E la prova di questa liberazione sta anche nella reazione dei giovanissimi, come quella bambina di nove anni citata dalla regista che, dopo la visione, le ha chiesto con disarmante lucidità se le fosse mancato di più il padre in prigione o in esilio. Il film parla a tutti, perché, conclude Anna, "c'è una cosa che interessa molto ai ragazzi: vedere persone che hanno impiegato la propria vita per un ideale".

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