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40 Secondi per morire: lo specchio di una gioventù senza valori

Il film "40 secondi" sull'omicidio di Willy Duarte come analisi sociale sulla la gioventù post-Covid, la cultura tossica nella provincia italiana

Oltre la cronaca, l'opera di Vincenzo Alfieri premio speciale della giuria alla Festa del cinema di Roma diventa una spietata analisi sociologica. Un viaggio nella provincia italiana post-Covid, dove la mascolinità tossica e l'assenza di valori generano mostri.

[di Massimo Righetti]

Justin de Vivo - 40 Secondi

Il cinema, talvolta, assolve il compito ingrato di dirigere l'obiettivo dove la società preferisce non guardare. È quanto accade con 40 secondi, l'opera di Vincenzo Alfieri, vincitore del premio della giuria Festa del Cinema di Roma e prossimamente al cinema grazie a Eagle Pictures: un film che, narrando la tragica morte di Willy Monteiro Duarte, opera una vivisezione impietosa del nostro presente. L'opera va dunque intesa come documento prezioso, referto clinico che trascende la cronaca di una notte di follia a Colleferro per diagnosticare una patologia collettiva, il sintomo di un malessere generazionale che cova sotto la cenere della normalità.

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Il film offre il ritratto spietato di una gioventù in sospensione, archetipi di una provincia italiana post-pandemica che si muove in un limbo esistenziale. I personaggi, interpretati con cruda verosimiglianza anche grazie alla scelta di attori non professionisti, incarnano le tensioni di un'intera generazione. Sono ragazzi imprigionati in una provincialità patriarcale, un ecosistema dove la noia agisce come motore immobile delle giornate e la violenza diventa l'unica grammatica nota per affermare la propria esistenza. La pandemia, evocata come presenza spettrale nell'estate del 2020, ha funzionato da detonatore, esacerbando frustrazioni e disagi compressi che non trovano altra valvola di sfogo se non nell'aggressione. In questo vuoto di prospettive, la cultura della movida si trasforma in rituale tossico, sistema fondato su alcol, affermazione del branco e violenza gratuita come codice d'interazione sociale.

Francesco Gheghi, Justin de Vivo - 40 Secondi
Francesco Gheghi, Justin de Vivo - 40 Secondi

La scelta registica di Alfieri di delocalizzare la vicenda, pur partendo da un fatto specifico, costituisce un potente atto d'accusa. Colleferro cessa di essere coordinata geografica per farsi allegoria: simbolo di tutte le province dimenticate, ex città operaie che hanno smarrito il proprio tessuto comunitario e dove la tensione sociale cresce silenziosa. In questo, la struttura narrativa che scandisce le ventiquattro ore prima della tragedia ricalca un modello cinematografico preciso, quello usato da Tim Sutton nel suo Dark Night per raccontare il vuoto della società americana che portò alla strage ad Aurora, in Colorado, durante la prima del film di Christopher Nolan The Dark Night-Il Cavaliere Oscuro. Come Sutton, anche Alfieri usa questo approccio non per creare suspense, ma per condurre un'autopsia sociale, suggerendo che la violenza non deflagra dal nulla: è il punto di arrivo di una catena di micro-eventi, di frustrazioni sedimentate in un sistema sociale fragile e disfunzionale. Il film ci ammonisce: la tragedia di Willy non rappresenta un'anomalia, ma un evento replicabile ovunque si manifesti lo stesso cocktail letale di assenza di valori, incomunicabilità e disperazione. 

40 secondi - locandina ufficiale

Al cuore di questa analisi emerge con prepotenza una cultura machista saldata a un fascismo culturale diffuso. Occorre intendersi: non si tratta di un'ideologia politica strutturata, bensì di un habitus violento. Gli aggressori sono il prodotto terminale di un modello di mascolinità egemone, dove la virilità si misura attraverso la dominanza fisica, il controllo territoriale e una concezione proprietaria delle relazioni. Il corpo allenato non è strumento sportivo, ma arma da esibire per imporre rispetto. Questo culto della forza si nutre di un'estetica fascistoide che disprezza la fragilità, l'empatia, l'alterità. Il gesto di coraggio di Willy, il suo intervento pacifico, incarna un modello di mascolinità alternativa, non aggressiva. Agli occhi dei suoi carnefici, questa diversità costituisce una provocazione intollerabile, una debolezza da annientare.

40 secondi è un film necessario, un monito feroce che ci obbliga a guardarci allo specchio. La scelta di non calcare la mano su un movente specifico, come quello razziale che non è stato al centro del dibattito processuale, rende la sua diagnosi, se possibile, ancora più terrificante. Ci suggerisce che per arrivare a un'esplosione di violenza così insensata non serve nemmeno il motore di un'ideologia precisa; basta il vuoto. Un vuoto di valori, di prospettive, di empatia. È questo deserto culturale, dove prosperano mascolinità tossica e fascismo dell'azione, il vero imputato. Finché continueremo a distogliere lo sguardo da questo nulla che abbiamo lasciato crescere nelle nostre periferie, non solo geografiche ma esistenziali, quegli stessi demoni continueranno ad armare altre mani. La domanda non è se accadrà di nuovo. È dove. E quando saremo pronti a riempire quel vuoto, prima che inghiotta la prossima vita in quaranta, maledetti secondi.

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