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Napoli attraverso lo sguardo di Mimmo Jodice: un'eredità silenziosa

Omaggio a Mimmo Jodice e al suo legame con Napoli. La sua fotografia, dall'antropologia sociale alla metafisica della luce e del silenzio.

Dalla denuncia sociale alla metafisica del vuoto, un'analisi del legame inscindibile tra il grande fotografo e la sua città, un viaggio nell'anima di Napoli attraverso le sue immagini eterne.

[di Massimo Righetti]

La scomparsa di Mimmo Jodice ha avvolto Napoli in quel silenzio che lui, per primo, aveva saputo ascoltare e tradurre in immagine. Per penetrare l'opera che ci consegna, occorre ripartire da un'affermazione lapidaria quanto rivelatrice: "Se fossi nato a Milano o a Zurigo non avrei fatto il fotografo". In queste parole si condensa l'intera parabola del suo sguardo: Napoli non è stata per Jodice un semplice soggetto, ma la condizione stessa della sua arte, una sorgente inesauribile che ha plasmato insieme il suo occhio e la sua visione. Il suo corpus fotografico costituisce un trattato antropologico per immagini, un'immersione viscerale in una città-mondo che egli ha prima abitato con il corpo, poi trasfigurato in simbolo universale.

Il percorso prende le mosse dal Rione Sanità, definito "importante compagno della mia vita", dove la realtà si impone con una densità che non ammette evasioni. Negli anni Sessanta e Settanta, la sua fotografia è militanza dello sguardo, quel "corpo a corpo con la realtà" di cui parlava Achille Bonito Oliva. Accanto al musicologo Roberto De Simone, Jodice si cala nelle feste votive e nei rituali arcaici, generando il seminale Chi è devoto (1974): un'indagine antropologica che dissotterra le stratificazioni pagane e sacre sopravvissute nei gesti, nei volti, nelle liturgie popolari. In questa fase, egli individua una sintonia visiva tra le statue della classicità e i personaggi della Napoli plebea, decifrando una continuità genetica e culturale che supera i due millenni. Con identica urgenza civile, l'obiettivo si volge alla realtà dolente: i reclusi del Leonardo Bianchi, gli operai, le piaghe del colera del 1973. Jodice è allora un militante dell'immagine, schierato "sempre dalla parte dei perdenti", persuaso che la fotografia possa essere strumento di trasformazione, un dispositivo per costringere a vedere ciò che è invisibile.

Vedute di Napoli - opera 29
Vedute di Napoli - opera 29
La cesura sopraggiunge attorno al 1980, generata da una cocente disillusione. "Capii che mi ero illuso di poter contribuire a cambiare qualcosa con la mia fotografia", ammetterà. "Per un anno non fotografai più". Questa crisi gli restituisce la città come deserta, angosciante, ostile. La risposta è una scelta radicale, irreversibile: "avevo cancellato la presenza dell'uomo". Da questa lacerazione nasce Vedute di Napoli (1980), spartiacque nel suo linguaggio e nella fotografia internazionale. L'assenza umana si fa presenza densa, gravida di senso. Sottraendo il rumore contingente, Jodice permette alla città di pronunciare finalmente il proprio monologo profondo. Architetture mute, piazze e strade deserte si caricano dello spessore della storia, del mito, della memoria stratificata nei millenni. La sua Napoli diventa un paesaggio interiore, teatro metafisico dove il tempo non scorre ma si sospende, dove l'assenza rivela più della presenza, dove il silenzio parla più forte di qualsiasi voce.

In questo passaggio dal sociale al metafisico si compie un paradosso: cancellando l'uomo, Jodice ne restituisce l'essenza. Le sue Napoli spopolate non sono vuote, ma stracolme di tutto ciò che l'uomo vi ha depositato attraverso i secoli: gesti, credenze, fatiche, sogni. Nella sottrazione si realizza un'addizione vertiginosa. Rimuovendo l'epidermide rumorosa del presente, l'artista fa riemergere il segnale antico, quell'anima che si rivela solo quando la città tace. È una forma di antropologia che si inverte: non più l'uomo che abita gli spazi, ma gli spazi che conservano l'impronta indelebile di chi li ha attraversati.

La città invisibile - Mimmo Jodice
La città invisibile 
Questa metamorfosi dello sguardo trova compimento in La città invisibile (1990), curata da Germano Celant, dove periferie anonime e capannoni dismessi si trasfigurano in paesaggi metafisici. Jodice raggiunge qui la piena padronanza di quella che egli stesso definiva l'alchimia della camera oscura: luogo di creazione, non di riproduzione. Stampatore virtuoso, considerava il bianco e nero analogico non un limite tecnico ma una scelta poetica, finalizzata a trasfigurare il reale privilegiando il messaggio. La luce diventa soggetto autonomo: "La luce è tutto. È il respiro della fotografia", affermava. Questo chiaroscuro mentale scolpisce atmosfere sospese, conferendo alle architetture quella qualità di mistero e atemporalità che ne costituisce il suo tratto distintivo.

Napoli-La-Citta-invisibile-Piazza-del-Plebiscito-1990.-©-Mimmo-Jodice
Napoli-La-Citta-invisibile-Piazza-del-Plebiscito-1990.-©-Mimmo-Jodice

Il cerchio si chiude con Napoli Metafisica (2025), allestita al Maschio Angioino: summa di un dialogo sessantennale, concepita come testamento visivo. Il confronto con Giorgio de Chirico non è accostamento didascalico ma riconoscimento di un'affinità elettiva: entrambi hanno popolato i loro vuoti di presenze immateriali, entrambi hanno fatto del silenzio un linguaggio. Curata da Vincenzo Trione, la mostra articola la ricerca di Jodice attraverso archetipi metafisici—"Lontananze", "Archi", "Colonne", "Ombre"—rivelando la coerenza di un'indagine che ha reso i luoghi ignoti a sé stessi, muovendo dal visibile verso l'invisibile, che sta dietro le apparenze.

Napoli Metafisica (2025)
Napoli Metafisica (2025)
Che lo stesso castello abbia accolto poi la sua camera ardente nella Sala dei Baroni conferisce a questa coincidenza una valenza simbolica struggente: l'uomo che ha distillato l'essenza monumentale di Napoli viene restituito al suo cuore più antico, suggellando la fusione definitiva tra l'artista, l'opera e la città.

L'eredità di Jodice trascende il catalogo: egli ha rifondato l'identità visiva di Napoli, sostituendo gli stereotipi chiassosi con una visione contemplativa e universale. Ha dimostrato che la vera anima della città non risiede nel suo frastuono, ma nel silenzio che custodisce i millenni. La sua fotografia non documenta: pensa. Non registra: rivela. È archeologia dell'anima, strumento di tempo interiore.

Resta la Napoli metafisica che ha costruito, città dell'anima fatta di luce, ombra e attesa. Attraverso il suo sguardo, le pietre hanno imparato a parlare, e il loro linguaggio silenzioso è il dono che ci consegna. Come scriveva Paul Éluard in versi che sembrano pensati per lui: "Esiste un altro mondo, ma è in questo". Jodice ci ha insegnato a vederlo.

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