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La solitudine dei numeri primi (al botteghino): perché Zalone ha asfaltato la nostra tristezza d'autore

Zalone record con Buen Camino: 5,6 milioni in un giorno. Un'analisi ironica sul trionfo della risata contro la crisi del cinema d'autore italiano.

Mentre il cinema d'autore piange miseria e Avatar annaspa, Buen Camino ci ricorda che il pubblico non è stupido: vuole solo salvarsi la vita (e la prostata) con una risata.

[di Massimo Righetti]

Checco Zalone

Io, chi mi conosce lo sa, sono uno che solitamente si commuove davanti alla staticità geologica di un film di Lav Diaz. Sono quello che, in una delle sue vite precedenti, ha trascinato gente (poca, a onor del vero, pochissima) in sala a vedere Manta Ray di Phuttiphong Aroonpheng, una pellicola dove si pronunciavano sì e no cinque parole in croce, e tre erano "uhm", e che avrebbe difeso fino alla morte l'importanza culturale di un film kazako con sottotitoli in aramaico antico, proiettato in un cinema d'essai dove l'odore di muffa è considerato un valore aggiunto. Quasi un effetto speciale olfattivo. Del resto, se non senti quella nota di spore penicilliniche nell'aria, che cinema d'autore è?

Eppure, eccoci qui. Puntuale come una cartella esattoriale recapitata la Vigilia di Natale, è arrivato Checco Zalone. E con lui, Buen Camino. E con lui, quel meraviglioso, catastrofico rumore di vetri infranti che è il suono delle certezze del cinema d'autore italiano che vanno in mille pezzi. È un rumore che conosciamo bene, noi intellettuali: è lo stesso che fa la nostra autostima quando realizziamo che quasi settecentomila persone hanno preferito una battuta sulla prostata alle nostre raffinate metafore sulla caducità dell'essere.

Diciamocelo con quella brutalità che si usa solo tra amanti o tra nemici giurati: Zalone ci ha fregati tutti. Di nuovo. Il 25 dicembre, mentre eravamo impegnati a disquisire sulla poetica del silenzio tra una fetta di panettone e un sorso di passito, rigorosamente biodinamico, certificato, possibilmente vendemmiato da monaci tibetani, Luca Medici ha portato al cinema una marea umana. Ha incassato cinque milioni e seicentomila euro in ventiquattro ore. Ha preso il povero James Cameron, con i suoi omini blu e la sua tecnologia da miliardi di dollari, e lo ha accompagnato alla porta con la gentilezza di un buttafuori di provincia, riducendo Avatar a una nota a piè di pagina .

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C'è qualcosa di perverso e magnifico in tutto questo. Gli autori italiani, quelli che sognano la Palma d'Oro girando film in tinelli bui con quattro attori che sussurrano drammi esistenziali, rigorosamente in penombra perché la luce è volgare, ora sono lì che piangono. Si chiedono perché. Si domandano dove hanno sbagliato. Incolpano il pubblico, quella "masnada di minus habens" che rifiuta la sfumatura, che ignora il tormento. Che non capisce che quel piano sequenza di otto minuti su una tazzina di caffè che si raffredda è cinema, maledizione. E invece il pubblico, ed è qui l'errore fatale, è vivo. Il pubblico ha semplicemente scelto di non morire di noia. Il pubblico, scopriamo con sgomento, vuole divertirsi. Lo so, è uno shock. È come scoprire che la gente va al ristorante per mangiare, e raramente per ammirare la composizione cromatica del piatto vuoto.

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Prendete Primavera di Damiano Michieletto. Un film su Vivaldi, girato con grazia, ambizioso, colto. Incasso di Natale? Ottantanovemila euro. Una cifra che Zalone spende probabilmente in gomme da masticare sul set. Il punto è che gli autori italiani continuano a fare film per il Ministero, per i bandi, per le film commission, per quella burocrazia dell'anima che impone veti e consiglia prudenze. Film dove tutti parlano sottovoce perché urlare è da poveri, dove nessuno ride perché ridere è populismo, dove la telecamera è fissa perché muoverla costerebbe e comunque l'immobilità è più "concettuale".

Zalone, invece, prende un miliardario viziato, gli mette sotto il sedere una Ferrari, lo spedisce sul Cammino di Santiago e gli fa cantare un inno alla "Prostata Enflamada". Capite la genialità? Mentre noi cerchiamo di elevare lo spirito con la sofferenza (perché se non soffri, che film d'autore è?),  Zalone ci ricorda che abbiamo più di cinquant'anni e che il dito dell'urologo è l'unica vera, grande livella sociale. Più democratico del voto, la prostata ci accomuna tutti, dal muratore al cardiochirurgo, dal professore universitario al benzinaio. È la nostra Costituzione biologica.

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In Buen Camino, Checco è un mostro. Un erede vacuo che chiama la figlia Cristal in onore dello champagne. Ma è un mostro in cui ci riconosciamo tutti molto più che nei protagonisti tormentati del nostro cinema "impegnato". Perché Zalone ha il coraggio di essere scorretto in un mondo terrorizzato dall'essere cancellato. Fa la battuta sul compagno della ex moglie definendolo "l'unico palestinese che ha occupato un territorio a Gaza"  e la sala viene giù. La gente ha bisogno di respirare. Ha bisogno di quella boccata d'aria che arriva quando qualcuno, finalmente, dice la cosa sbagliata al momento giusto.

Gli esercenti, intanto, hanno smesso di prendere gli ansiolitici. Per loro Zalone è il Messia. È quello che arriva a dorso di mulo, moltiplicando pani, pesci e biglietti venduti. Hanno acceso i proiettori come si accendono i ceri votivi. Buen Camino ha cannibalizzato quasi l'80% del mercato nel giorno di Natale . È una dittatura? Forse. Ma è una dittatura eletta a suffragio universale dal popolo pagante. Una dittatura dove il despota ti fa ridere invece che tremare. Francamente, abbiamo conosciuto di peggio.

Il paradosso è tutto qui: Zalone è oggi l'autore più libero che abbiamo. Più libero dei registi indie che scimmiottano il cinema europeo per compiacere una giuria. Più libero di chi scrive sceneggiature con il bilancino del politicamente corretto. Più libero di chi gira film dove il massimo della trasgressione è far dire "cazzo" a un personaggio al minuto quarantasette. Lui se ne frega. Lui fa ridere. E facendo ridere, costruisce quella cattedrale laica che è il cinema pieno. Il cinema pieno, capite? Quella cosa archeologica, quel reperto del Neolitico che credevamo estinto. File alla cassa. Gente che compra i popcorn. Sale da trecento posti dove non puoi contare i presenti sulle dita di una mano.

Quindi, cari autori che scrivete storie di dolore in appartamenti della periferia romana, posate il prosecco. Posate anche il sigaro cubano che non fumate ma tenete in mano per sembrare più tormentati. Smettetela di sentirvi incompresi. Il pubblico non vi odia. Il pubblico vuole solo che, per una volta, lo prendiate per mano e lo portiate a vedere qualcosa di bello, di vivo, di folle. O almeno, che gli facciate dimenticare la prostata per un'ora e mezza. Viva Checco, sempre.

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