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Ammazzare Stanca: Daniele Vicari racconta la fatica del male

Daniele Vicari presenta Ammazzare Stanca all'Azzurro Scipioni: il metodo collettivo, la storia di Zagari e l'analogia dell'affresco.

All'Azzurro Scipioni di Roma, il regista racconta la "fatica" del male e la ricostruzione degli anni '70 nell'incontro romano.

[di Redazione]

Daniele Vicari

C'è un filo rosso che lega la missione culturale di Silvano Agosti, custode storico del Cinema Azzurro Scipioni, e l'ultima opera di Daniele Vicari. Entrambi concepiscono il cinema come specchio e indagine del reale, uno strumento per scardinare le certezze piuttosto che per confermarle. È in questa cornice di "intimità rivoluzionaria", che si è svolto l'incontro di ieri sera, 27 dicembre, per la proiezione di Ammazzare stanca - Autobiografia di un assassino. Un evento che ha trasformato la sala in un laboratorio di idee, dove il regista ha condiviso con generosità il dietro le quinte di un film che sta ridefinendo i canoni del genere criminale italiano.

Il paradosso del genere e l'eredità di Pavese

La genesi dell'opera nasce da un'apparente contraddizione, confessata candidamente da Vicari in apertura: il suo scarso interesse per il racconto criminale classico. L'autore di Diaz ha sempre mantenuto una certa distanza dai meccanismi di fascinazione del male. «Io non sono un grande appassionato di racconti criminali; è un genere che solitamente mi prende poco, devo dire la verità», ha esordito il regista. «Il mio scarso interesse per il racconto criminale non è per motivi morali o politici, ma perché fatico a comprendere certi meccanismi e logiche alla base di alcuni comportamenti. Grandi registi ne hanno tratto storie straordinarie, quindi qualcosa di importante deve esserci, ma personalmente non capivo come calarmi in quel tipo di situazione».

Tuttavia, l'incontro con l'autobiografia di Antonio Zagari, reperita durante le ricerche per un precedente lavoro, ha aperto una prospettiva inedita. Zagari, figlio di un boss della 'Ndrangheta trapiantato nel profondo Nord, poneva sulla pagina le stesse domande esistenziali che tormentano chiunque. «Leggendo il libro di Antonio Zagari — l'autobiografia di un ragazzo nato e cresciuto in una famiglia 'ndranghetista — ho trovato invece domande che mi pongo anche io: che senso ha la mia vita?», ha spiegato Vicari.

Il titolo stesso, che evoca Cesare Pavese con una sfumatura di tragica ironia, suggerisce proprio questo logoramento. «Il titolo, Ammazzare stanca, è una controversa citazione di Pavese, intrisa di ironia o autoironia», ha raccontato l'autore. Zagari racconta la sua vita come se fosse dentro un film, permettendo a Vicari di giocare con il punto di vista di un assassino che, pur avendo commesso crimini efferati, mantiene una legittimità narrativa che il cinema ha il dovere di esplorare.

Un "Far West" nella nebbia lombarda

Il contesto storico ricostruito nel film è quello di una Lombardia anni '70 livida e violenta, teatro di una colonizzazione criminale silenziosa ma inesorabile. Vicari ha ricordato come l'industria dei sequestri di persona sia stata il motore economico cruciale di quella fase. «Leggendo il libro ho focalizzato meglio la vicenda dei rapimenti, che in Lombardia fu enorme: dal 1974 furono rapite circa 400 persone e spesso le organizzazioni criminali e politiche usavano i riscatti per autofinanziarsi».

È un momento di guerra generazionale: i padri ancorati ai vecchi codici rurali contro i figli proiettati verso il business degli stupefacenti. «Fu un momento di guerra interna: i vecchi non volevano commerciare stupefacenti, i giovani sì. Si spararono tra loro per la supremazia sul territorio».

Il Sangue e la Famiglia: l'impossibilità di uscire

Al cuore del dramma di Zagari c'è l'impossibilità di scindere l'appartenenza criminale da quella familiare. Vicari ha illuminato una peculiarità sociologica della 'Ndrangheta al Nord rispetto ad altre organizzazioni, ovvero la sovrapposizione totale tra il clan e la famiglia di sangue, che rende ogni tentativo di ribellione un atto di tradimento affettivo insostenibile.

«È interessante notare come al Nord accadevano cose impossibili al Sud: alcuni di questi delinquenti avevano genitori che avevano fatto la Resistenza», ha osservato il regista durante il dibattito, evidenziando la complessità del tessuto sociale in cui il film si muove. «È un dettaglio che complica la storia: uscire da una banda criminale è difficile, ma se quella banda coincide con la tua famiglia (madre, padre, fratelli), uscirne significa mandare in galera intere generazioni dei tuoi cari».

Questa coincidenza rende il pentimento di Zagari non solo una scelta legale, ma una tragedia greca. Per smettere di uccidere, Antonio deve "uccidere" simbolicamente il padre e i fratelli, consegnandoli alla giustizia. Vicari ha tenuto a precisare la natura viscerale di questa narrazione rispetto ad altre opere sul tema: «È un racconto interno unico, diverso da quello di un giornalista come Saviano che osserva dall'esterno. Questo memoriale è servito a mandare in carcere l'intera famiglia Zagari».

GUARDA LA CLIP DEL FILM

Il Metodo Collettivo: restaurare l'affresco

L'aspetto forse più affascinante emerso durante l'incontro riguarda il "metodo" utilizzato per restituire la verità di quegli anni. Vicari e il suo cast hanno adottato un approccio radicale: il metodo collettivo. Poiché quasi nessuno del gruppo di lavoro aveva vissuto coscientemente gli anni Settanta, imporre parametri dall'alto sarebbe stato artificiale.

«Nessuno nel gruppo di lavoro, a parte me che ero comunque un bambino, ha vissuto coscientemente gli anni '70. Il problema era: come si raccontano? O imponi dei parametri dall'alto, oppure costruisci quegli anni attraverso un gioco teatrale», ha spiegato Vicari. La soluzione è stata riunire quarantotto attori in uno spazio teatrale per settimane prima delle riprese: «Siamo stati nel teatro Argot per settimane, facendo vivere i personaggi prima di girare un film classico, non sperimentale. Il mio interesse, condiviso dai 48 attori, era vivere lo spirito di quegli anni».

Per descrivere questo processo di rievocazione storica con un budget che imponeva creatività, Vicari ha offerto al pubblico dell'Azzurro Scipioni un'immagine potente:

«Il lavoro di ricostruzione storica e psicologica fatto da noi e dal cast è come restaurare un vecchio affresco di cui sono rimasti solo pochi colori sbiaditi: non potendo ricomprare i materiali originali dell'epoca, gli artisti hanno dovuto studiare profondamente lo spirito di quel tempo per "inventare" le pennellate mancanti, rendendo l'opera nuovamente viva e coerente per chi la guarda oggi».

LEGGI ANCHE: Intorno all'attore si gioca la partita fondamentale: Vicari e il cast di AMMAZZARE STANCA raccontano il loro metodo collettivo

L'etica della rappresentazione e la tecnologia

Questo lavoro di sottrazione e sintesi ha coinvolto pesantemente anche la scrittura. Il testo teatrale emerso dal laboratorio rischiava di durare più di tre ore; Vicari ha dovuto operare tagli dolorosi, accorpando personaggi e funzioni narrative per rispettare le regole del gangster movie, un gioco che il regista paragona agli scacchi: «Ha norme precise che lo spettatore si aspetta siano applicate correttamente».

La figura di Zagari ne esce depurata da ogni aura mitica. Non è un eroe tragico alla Scarface, ma un uomo inadeguato. «Lui si descrive come un cialtrone: uno che ammazzava e poi inciampava nei cadaveri; non sapeva farlo fino in fondo. È una storia tragica». Una scelta etica necessaria per rispettare il dolore delle vittime reali, i cui parenti vivono ancora in quei territori. Vicari ha ricordato un episodio toccante avvenuto durante una recente proiezione a Varese: «Ho conosciuto lo zio del ragazzo rapito citato nel film. Bisogna stare attenti, perché le vittime sono ancora reali e i parenti sono ancora giovani; si rischia di ferire qualcuno».

In chiusura, sollecitato sul tema dell'Intelligenza Artificiale, Vicari ha mostrato un pragmatismo illuminato. Lungi dal demonizzarla, ha ricordato come il cinema dialoghi con queste tecnologie da tempo, citando il suo lavoro di restauro audio per il film su Fela Kuti: «L'intelligenza artificiale, in realtà, si usa nel cinema da anni. Per il mio film su Fela Kuti, avevamo video in VHS di scarsa qualità ma audio dei dischi perfetto. Per non far saltare lo spettatore sulla sedia, abbiamo usato plugin (che oggi chiameremmo AI) per scorporare strumenti e voci e ricostruire un mix simile a quello dei dischi». La sua visione per il futuro è cautamente ottimista: «Speriamo che sia a favore della creatività; dipende da come useremo questi strumenti».

La serata all'Azzurro Scipioni ha confermato che Ammazzare stanca è molto più di un film di genere: è un atto di resistenza culturale, la prova che scavare nel passato con onestà intellettuale rimane il modo migliore per interrogare il nostro presente.

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