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Jafar Panahi: Non trovo Dio in cielo, lo trovo nelle immagini

Le parole integrali di Jafar Panahi alla Festa del Cinema di Roma 2025. Un'analisi profonda sul suo cinema, la resistenza e la libertà d'espressione.

Dal palco della Festa del Cinema, il regista Palma d'Oro si racconta senza filtri: la resistenza, il cinema come unica vocazione e la verità dell'immagine come atto di fede contro ogni censura.

[di Alex M. Salgado]

Ci sono registi che fanno film. E poi ci sono cineasti la cui intera esistenza è un atto cinematografico. Jafar Panahi appartiene a questa seconda, rarissima stirpe. La sua presenza alla Festa del Cinema di Roma 2025 – dove ha ricevuto il Premio alla Carriera e presentato Un semplice incidente, suo capolavoro premiato con la Palma d'Oro – ha trasceso la dimensione festivaliera per diventare lezione magistrale sulla dignità, sulla resistenza e sul potere quasi teologico dell'immagine. Davanti a una Sala Sinopoli ammutolita, Panahi non ha semplicemente risposto a domande: ha offerto le coordinate morali del suo mondo, componendo un autoritratto per frammenti verbali la cui eco risuona ben oltre i confini dell'Auditorium.

Il suo racconto nasce dalla consapevolezza, da una lucidità quasi disarmante di fronte al pericolo che la sua arte comporta. È il fondamento di ogni scelta, la premessa di una coerenza pagata a caro prezzo. Con voce pacata ha spiegato: "Io conosco il contesto in cui vivo, la situazione del mio Paese e sono consapevole che il mio modo di fare cinema comporta dei rischi, ma dall'inizio mi sono imposto di accettare qualunque conseguenza". Questa accettazione del rischio si fonda su una verità esistenziale, un'identificazione totale tra l'uomo e il suo mestiere – per lui vocazione ineludibile. "Io non so fare altro se non il cinema", ha confessato, prima di rievocarne il momento cruciale: "quando mi è stato detto che non potevo realizzare film per 20 anni sono rimasto scioccato... [ma ho cercato] una soluzione perché volevo continuare a fare cinema. La mia motivazione è sempre stata realizzare film e sempre sarà così".

Jafar Panahi, Giuseppe Tornatore
La ricerca di quella "soluzione" è diventata la cifra stilistica del suo cinema più recente, un'ingegnosa trasmutazione della clandestinità in linguaggio. Ha descritto il bivio imposto a ogni artista nel suo Paese: "In Iran se non fai un film di propaganda governativa non ti fanno lavorare. È questo il vero problema. Allora ti puoi rassegnare o trovare una soluzione". La sua è nata da un pensiero tanto semplice quanto visionario, che ha dato vita a un capolavoro come Taxi Teheran: "Ho cominciato così a pensare: cosa potrei mai fare se non facessi il regista? Mi sono detto: potrei guidare un taxi, ma anche guidando un taxi probabilmente mi metterei a girare". Questa pratica, germogliata dalla necessità, è diventata l'avanguardia più autentica, portandolo ad affermare con sicurezza che "Oggi i migliori film iraniani sono realizzati in maniera clandestina".

Ma per comprendere la radice di tale incrollabile determinazione, bisogna scavare più a fondo, in un'eredità intima e spirituale che il regista ha condiviso in un momento di straordinaria intensità. Le sue parole hanno disegnato l'architettura etica su cui poggia l'intera opera: 

"Mio padre era un lavoratore e il figlio di un contadino. E c'era una cosa che continuava a ripetermi. Diceva sempre: non ti è permesso inginocchiarti di fronte a nessuno tranne che a Dio. Da quando è morto, a 53 anni, ho cercato Dio ovunque. Ma non l'ho trovato nel cielo, l'ho trovato nelle immagini".

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È questa fede laica e potentissima nella verità dell'immagine a guidare il suo sguardo sulla realtà cangiante dell'Iran, scosso dal movimento "Donna, Vita, Libertà". Panahi registra questo cambiamento con la precisione di un sismografo, ridefinendo il concetto stesso di realismo cinematografico: "Nel mio film si vede a un certo punto una donna senza velo. In altri tempi sarebbe stato una finzione, oggi invece la finzione sarebbe metterne una". Una trasformazione che, precisa, "influenza tutti gli aspetti della vita, non solo il cinema".

LEGGI LA RECENSIONE DEL FILM: Jafar Panahi al Festival di Cannes 2025: Il trionfo della resilienza tra applausi e urgenza politica

Questo stesso sguardo si posa sulla trama di Un semplice incidente, invitando il pubblico a vedere oltre la superficie. Di fronte a una storia che esplora il desiderio di vendetta di un uomo verso il suo presunto aguzzino, Panahi offre una chiave di lettura più profonda: "In realtà il tema della vendetta o del perdono non sono certo la parte più profonda del film, ma quella superficiale, funzionale a portare avanti la storia". Il vero cuore dell'opera risiede in una domanda aperta, un monito lasciato alla coscienza dello spettatore: "L'obiettivo di 'Un semplice incidente' è chiedersi 'nel futuro questo circolo vizioso di violenza che genera violenza si fermerà o no?'. Vorrei che le persone che escono dalla sala continuino a riflettere".

Un invito alla riflessione che si nutre di un'umanità profonda, quella stessa che emerge da un aneddoto finale, quasi surreale, che racchiude l'essenza della sua condizione d'artista. Rievocando il giorno della vittoria a Cannes, Panahi ha svelato il peso invisibile di quella consacrazione: "La sera prima avevo ricevuto una telefonata dal carcere, un amico detenuto mi aveva chiamato per dirmi che quando avevo presentato il film si erano sentiti incoraggiati dalle parole che avevo detto e che se avessi vinto la Palma d'oro avrebbero festeggiato anche loro". Un'attesa carica di responsabilità, aggravata dall'incertezza: "Gli spiegai che non era scontato, ma non voleva prendere in considerazione l'ipotesi che io potessi non vincere". Seguì una notte insonne, poi l'assenza di elettricità che impedì ogni notizia fino alle quattro del pomeriggio, quando arrivò l'invito alla cerimonia. "Di corsa, ho accompagnato mia figlia a cercare un vestito adatto alla serata, ma ho fatto in tempo solo a prendere gli occhiali e sono andato senza cambiarmi". Durante l'intera cerimonia, il pensiero ossessivo: le parole dell'amico, la responsabilità, il dovere di non tradire quella fiducia. "Solo quando hanno detto il mio nome mi sono sentito come liberato". E poi, il dettaglio rivelatore: "Fu una giornata lunga, e solo alla fine, dopo la premiazione, mi sono accorto che gli occhiali che avevo non erano i miei, ma quelli di mia moglie".

In questa immagine, un uomo che raggiunge il più alto riconoscimento mondiale vedendo attraverso gli occhi di un altro, in un gesto nato dalla fretta e dalla pressione di chi porta sulle spalle le speranze di un'intera comunità reclusa, c'è tutto Jafar Panahi: un cinema fatto con mezzi di fortuna, in uno stato di perenne emergenza, che riesce a raggiungere una lucidità di sguardo assoluta e universale.

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