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L'Incarnazione della Luce nelle Tenebre di Roma – Un'Epifania a Palazzo Barberini

Vivi Caravaggio a Roma! Capolavori riuniti a Palazzo Barberini per il Giubileo 2025. Luce, dramma, realismo. Evento imperdibile.

L'Eterna Folgorazione di Caravaggio Risorge a Roma.


[di Massimo Righetti]

Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un nome che non designa un pittore, ma un destino. Una forza tellurica che squarcia la storia dell'arte, un demiurgo che plasma la carne e l'anima sulla tela, strappandole all'abisso del nulla con lame di luce tagliente, assoluta, divina. Il suo nome è cifra di dramma esistenziale, di passione incandescente, di una verità così cruda da farsi quasi insostenibile. La sua maestria nel dominare il buio, facendone materia viva da cui far erompere la forma illuminata, non è tecnica: è teologia. È la perenne lotta tra dannazione e salvezza inscritta nel pigmento.

E Roma – ah, Roma! – la città che fu suo palcoscenico, suo altare e suo inferno, oggi si genuflette ancora una volta davanti al suo figliol prodigo più geniale e terribile. Lo fa con "Caravaggio 2025", un evento che trascende la mostra per farsi rito, pellegrinaggio necessario nel cuore stesso del Barocco, nello scrigno sublime di Palazzo Barberini. Qui, sul sacro suolo calpestato dal suo committente Maffeo Barberini, poi Urbano VIII, il genio lombardo torna a manifestarsi, in una coincidenza quasi fatidica con l'Anno Santo. Un invito, per chi ha occhi per vedere, a un Giubileo dello spirito e dello sguardo. 

Curata da nomi che pesano nel firmamento degli studi – Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi, Thomas Clement Salomon – questa non è un'esposizione, è un'evocazione. È la promessa audace di un "Caravaggio allo stato puro": ventiquattro (o ventitré, se si vuole dar retta alle diatribe accademiche sul Narciso) apparizioni del Maestro, un concilio di capolavori mai riuniti prima d'ora in tale mistica assemblea. Un miracolo curatoriale reso possibile da prestiti che hanno del prodigioso, dalla Galleria Borghese a Intesa Sanpaolo, fino ai santuari dell'arte sparsi nel mondo.

E la scelta, sapiente, quasi ascetica, di escludere le tele custodite nelle chiese romane non è privazione, ma monito: la vera comprensione di Caravaggio esige un altro pellegrinaggio, quello per le vie di Roma, alla ricerca delle sue opere nel loro grembo liturgico originario. Questa mostra è il portale, l'iniziazione.

Nel Sancta Sanctorum: Un Viaggio Iniziatico tra le Tele

Addentrarsi in queste sale è come scendere nei meandri dell'anima umana e, insieme, ascendere verso una rivelazione. È un percorso scandito dal respiro stesso dell'artista, dalle sue prime luci romane, ancora intrise di umori profani, fino alle tenebre gravide di dramma degli ultimi anni. 

Sala 1: L'Alba Romana – La Verità nella Carne

Qui, il giovane Merisi irrompe sulla scena romana. Dopo l'apprendistato lombardo, lo troviamo a lottare, a dipingere fiori e "capocce", ma già con quella fame di realtà che lo divora. Il Bacchino Malato non è autoritratto, è confessione spettrale: il dio pagano è maschera sulla sua stessa carne scampata alla morte, le labbra livide aggrappate all'uva, promessa eucaristica di vita eterna contro il decadimento. La luce lo scolpisce, impietosa e redentrice. Accanto, il Ragazzo che Monda un Frutto rivela la sua mano infallibile nel rendere la materia – quasi si sente il profumo, la polpa – ma già allude a moralità nascoste, a moniti sussurrati. E poi I Bari, un teatro crudele della vanità umana dove la luce caravaggesca inchioda i volti, le mani rapaci, l'ingenuità sbranata dalla frode. È il nostro mondo, oggi come allora. Il San Francesco in Estasi  ci porta al sacro: non le stimmate visibili, ma l'abbandono mistico nell'attimo dopo. È l'angelo, figura di una bellezza struggente (il giovane Cecco, il suo amante?), a sorreggerlo, mentre la luce divina, proveniente da una fonte invisibile, lo investe come un tocco soprannaturale. E la prima, rifiutata, Conversione di Saulo, un tumulto ancora manierista, forse, ma con quella figura di Cristo che irrompe fisicamente nella scena, un corpo divino troppo vero, troppo carnale per la convenzione. Già qui, la luce non descrive, rivela.

Sala 2: Volti dell'Anima e Sacrifici Rituali

Caravaggio fu ritrattista immenso, capace di fissare l'anima oltre la carne. Il doppio Maffeo Barberini ne è prova: dalla figura più convenzionale, forse opera di bottega con intervento del maestro, all'esplosione psicologica del secondo ritratto. Qui è la nascita dell'uomo moderno sulla tela: l'ambizione, l'intelligenza, il gesto sospeso catturato dalla luce che lo sbalza dal buio, rendendolo presenza viva, quasi interlocutore. Ma il cuore della sala pulsa di sangue: Giuditta e Oloferne, il sublime orrore. Non è pittura, è liturgia sacrificale. La bellezza di Giuditta (la cortigiana Fillide, amica e musa) è strumento di un Fato ineluttabile. Il suo volto, misto di determinazione e ripulsa, rende l'atto terribilmente, scandalosamente umano. La vecchia Abra assiste attonita. Oloferne urla, ma il suo ultimo sguardo è alla fonte della luce, vera mandante dell'esecuzione divina che guida la mano dell'eroina. La decapitazione di Beatrice Cenci aleggia in quella precisione anatomica, quasi insopportabile.

Sala 3: L'Ombra si Addensa – Tra Roma e l'Esilio

Il dramma si fa più cupo, l'esistenza più precaria. La Cattura di Cristo, riemersa dalle nebbie della storia come un fantasma, è un vortice di tradimento e accettazione. Giuda, maschera ferina; il soldato, armatura cieca e brutale; Giovanni, grido di fuga. E al centro, Cristo: un'isola di silenzio e resa nel caos. La luce lo isola, lo elegge vittima sacrificale, ne illumina la sconvolgente forza morale nell'abbandono. L'Ecce Homo di Madrid, ritrovamento che scuote certezze e accende dispute, ci pone davanti a un Cristo la cui sofferenza è quasi palpabile. La pittura si fa essenziale, scarna, la luce incide la carne dolente, il volto remissivo ma invincibile. La Flagellazione è monumento al dolore cosmico:  Commissionata da Tommaso De Franchis per San Domenico Maggiore, l'opera presenta una composizione potentissima: Cristo, statuario e michelangiolesco, è al centro, inondato di luce, abbandonato al martirio con espressione remissiva. Gli sgherri emergono a fatica dal buio, sottolineando la drammaticità accentuata dallo spazio vuoto in alto. Lo spazio vuoto incombe, la luce è sferza divina. Caravaggio condensa qui Flagellazione ed Ecce Homo, poiché Cristo indossa già la corona di spine. È un'ostensione eroica e intensamente spirituale del corpo martirizzato.

E il Davide con la Testa di Golia è l'abisso dell'autorappresentazione:  La maggior parte della critica lo colloca nel secondo soggiorno napoletano (1609-10), quando Caravaggio, fuggiasco e omicida, chiede la grazia al Cardinale Scipione Borghese. Invia questo quadro come macabra supplica: si autoritrae nella testa mozzata e urlante di Golia, il peccatore punito, mentre il giovane Davide, sfiorato dalla luce divina, lo guarda con espressione compassionevole, quasi intercedendo per lui. La pittura è cupa, la pennellata fluida, il dramma esistenziale è palpabile. 

Sala 4: Canto del Cigno nelle Tenebre Finali

L'ultima tappa del viaggio terreno e artistico. Il Ritratto di Cavaliere di Malta ha la severità inquieta dell'esilio, lo sguardo fiero ma segnato dalla fuga. E poi, il congedo supremo: il Martirio di Sant'Orsola. Dipinto quasi sul letto di morte, è tenebra squarciata da un ultimo lampo. La santa, spettrale, accoglie la freccia con un gemito che è già trapasso. E dietro, l'ombra del pittore: il suo volto, forse sfigurato dalle aggressioni napoletane, si specchia nel martirio, ultimo grido prima del silenzio. La luce è estrema unzione, sigillo tragico su una vita vissuta pericolosamente sull'orlo dell'abisso, cercando la verità assoluta nel cuore nero della realtà. 

Epilogo: Il Sacro Profanato dal Flash?

Questa immersione nei gorghi luminosi e oscuri di Caravaggio a Palazzo Barberini è esperienza che segna, che scuote nel profondo. Un evento, sì, di portata storica. Ma ecco irrompere il presente, la sua stridente cacofonia. Il successo, prevedibile, porta con sé l'orda. E mentre l'illuminazione, sapiente, cerca di guidare l'occhio devoto verso il dettaglio sublime, verso la pennellata che è carne viva, ecco la profanazione: la calca, il brusio, e, suprema offesa, le telefonate in viva voce e il lampeggiare blasfemo dei telefonini. Non più sguardo che contempla, ma pollice che scatta, telefonate imperdibili su dove organizzare l'aperitivo davanti alla Conversione di Saulo, selfie davanti alla Giuditta, sorrisi ebeti accanto alla Cattura di Cristo. La barbarie digitale che irride al sacro, il narcisismo che acceca davanti alla Rivelazione. Si esce da queste sale con l'anima trafitta dalla bellezza e lo stomaco nauseato dalla cafona incapacità contemporanea di sostenerla, di riceverla in silenzio. Le sterili diatribe accademiche sull'allestimento o sulle attribuzioni appaiono misera cosa di fronte a questa incapacità diffusa di vedere, di lasciarsi ferire dalla grandezza. Caravaggio, oggi più che mai, ci guarda da quelle tele. E forse, scuote la testa.

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