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Verso una terra ignota: cartografie dell'esilio nel deserto di cemento

L'esilio in 'To a Land Unknown'. Atene come "deserto urbano" dove i rifugiati palestinesi Chatila e Reda affrontano un realismo morale spietato.

'To a Land Unknown' disegna la mappa di un purgatorio palestinese ad Atene, dove ogni respiro costa un frammento d'anima.

[di Massimo Righetti]

To land unknown - still

Giunge oggi nelle sale, giovedì 13 novembre, distribuito da TrentFilm, un'opera che trascende i confini del cinema. To Land Unknown è uno specchio infranto e nei suoi cristalli spezzati trema la tessitura stessa dell'esistenza ai margini del mondo.

Tutto germoglia da un vuoto. Dodici anni or sono, il regista Mahdi Fleifel non cercava questa storia, vi inciampò, come si inciampa in una verità che attendeva, paziente, di essere riconosciuta. Era giunto in Grecia per A World Not Ours, testimonianza della paralisi che abita il campo profughi palestinese dove vissero i suoi genitori. Ma fu un compagno d'infanzia, evaso da quella prigione a cielo aperto, a dischiudergli una rivelazione: esisteva un altro limbo, popolato da giovani palestinesi in fuga, sospesi sulla soglia d'Europa come uccelli che hanno dimenticato il canto del volo.

Fleifel comprese allora che quella storia non conosceva epilogo. Era l'eco infinita di ciò che Ghassan Kanafani aveva inciso nelle pagine degli anni Sessanta con Uomini sotto il sole. Il deserto da attraversare aveva mutato natura: le distese di sabbia che il vento ridisegna avevano ceduto il posto al cemento che imprigiona. "Atene," sussurra il regista, "è questo nuovo deserto urbano."

Questo è il luogo. Un purgatorio che respira.

L'Atene che qui emerge abita lontana dai sentieri dove la Storia respira ancora, dove l'Acropoli levita all'orizzonte come un miraggio di marmo, promessa appartenente ad altri tempi, ad altre vite. Questa Atene si rivela dedalo senza Arianna, spazio che si fa carcere, vicoli che strangolano il respiro, stanze dove i corpi si accalcano e l'aria stessa diviene attesa solidificata. L'anticamera del mondo, dove le anime vengono dimenticate, lasciate a sedimentare come polvere negli angoli, senza giudizio né redenzione.

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In questa impasse planetaria, tra queste mura di cemento che sono dune immobili, si muovono due ombre: Chatila e Reda. Cugini, fuggiti da una prigione chiamata Ain el-Helweh per scoprire che l'esilio è soltanto una prigione più vasta, dove il gelo penetra più in profondità. Il loro sogno possiede la purezza disarmante delle cose semplici: un piccolo caffè in Germania. Un luogo. Un palmo di terra che risponda al loro nome.

Ma il deserto urbano, come il suo fratello di sabbia, pretende tributo e la purezza si frantuma contro le sue leggi implacabili. Ed è qui che l'opera ci obbliga a guardare, negandoci il rifugio della compassione comprata a poco prezzo. Fleifel rifiuta di trasformare le sue vittime in icone; al contrario, ci immerge nella loro complessità umana, in tutta la sua dolorosa contraddizione. Per continuare a respirare, i due devono imparare il linguaggio dei predatori.

TO land unknown - still
Li osserviamo mentre la loro umanità si consuma, come cera sotto una fiamma lenta. "Non siamo sempre puri" ha confessato il regista. E così li vediamo strappare borse dalle mani di anziane nei giardini, tessere raggiri, abitare la menzogna. Testimoniamo una metamorfosi necessaria, un  adattamento alla legge del vicolo: nutrirsi o diventare nutrimento.

E il cinema stesso si fa complice di questa metamorfosi. Fleifel non si limita a documentare, ma sposa finzione e realtà come si intrecciano i fili di un tappeto persiano. La sua macchina da presa cerca il respiro del vero insieme a quella che chiama "la bellezza del cinema", creando uno stile che possiede ritmo, musica, persino una cupa seduzione. Non è una scelta estetica, ma una dichiarazione etica: lo stile non nasconde la sporcizia del mondo, ma la illumina, la rende palpabile come una ferita.

Vediamo Reda, l'anima più vulnerabile, costretto a mercificare il proprio corpo nei parchi per una manciata di euro, poi cercare oblio nella droga che divora insieme i risparmi e il sogno. Vediamo Chatila, lo stratega, indurirsi come metallo sotto il martello, la sua determinazione che si trasfigura in ferocia, perché l'eterno stato di apolidia erode anche la solidarietà tra dannati.

Quest'opera ha faticato tanto a vedere la luce, perché così doveva essere. Era, nelle parole di Fleifel, "un film concepito in esilio, sugli esiliati e destinato agli esiliati". L'opera stessa porta nel proprio DNA l'assenza di patria, è essa stessa un'apolide, un frammento di quello specchio rotto.

E così, Il purgatorio, infine, svela la sua unica, terribile verità. Dimora definitiva anziché anticamera. Condizione dell'essere più che geografia. Malattia spirituale che penetra nelle ossa. La vicenda di Chatila e Reda narra di come il deserto urbano li consumi dall'interno, grano dopo grano, mentre il miraggio della Germania si allontana all'orizzonte.

Non ci viene chiesto di comprendere, ma di testimoniare: di vedere le forze che costringono a sporcarsi le mani, di sentire oltre la superficie degli atti le correnti profonde che li generano. Questa forma di empatia, infinitamente più esigente, infinitamente più necessaria nel nostro tempo che preferisce le favole alle verità che bruciano, è il dono ultimo e devastante che l'opera ci offre.

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