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L'ultima nota è un respiro: il capolavoro di diventare Ornella

Addio a Ornella Vanoni. Oltre la voce e il personaggio, il ritratto di una donna che ha scelto la libertà assoluta, trasformando la fragilità in forza

Smettere di essere un monumento per iniziare a essere liberi. La lezione di una donna che ha trasformato la vecchiaia in un atto di anarchia pura.

[di Massimo Righetti]

Ornella Vanoni

C'è un silenzio strano, adesso. Dimenticate quello che cala quando finisce un disco. Quello lo conosciamo, è una pausa che promette altra musica. Questo è diverso. È il silenzio bianco di una stanza vuota dove, fino a un attimo fa, qualcuno rideva e cantava. Ornella Vanoni se n'è andata il 21 novembre, scivolando via a 91 anni con la stessa eleganza svagata con cui si sfilava una scarpa stretta a fine serata.

Per decenni abbiamo guardato la "Vanoni". La statua. La voce di velluto che raccontava la mala, l'amore disperato, la saudade brasiliana. Era perfetta, distante, costruita per essere ammirata da lontano, come si fa con le opere d'arte che non si possono toccare. Poi accade qualcosa. Il tempo passa, la statua si crepa. Ma da quelle fessure non esce polvere. Esce luce. Esce Ornella. Finalmente.

Lasciate stare le canzoni: il suo vero capolavoro è stato un altro. È stato quel lungo, lento, inesorabile smantellamento del personaggio per fare spazio alla persona. Ci vuole un coraggio spaventoso per farsi vedere fragili. Ci vuole una forza disumana per dire al mondo "sono triste", "prendo i farmaci", "ho bisogno di una carezza". Lei lo ha fatto. Ha preso la vecchiaia, quella cosa che tutti nascondono come una vergogna, e l'ha indossata come l'abito più bello che avesse mai avuto.

Diceva che invecchiare significa tornare bambini. Ovvero: tornare all'origine della libertà. Il bambino dice quello che pensa perché non conosce le regole; Ornella diceva quello che pensava perché le regole le aveva superate tutte, lasciandole cadere alle spalle come vestiti vecchi. In questa libertà assoluta, ha trovato il modo di essere rivoluzionaria senza mai urlare. Le bastava sussurrare, magari ridendo, che la politica è un gioco dell'oca o che per dormire serve spegnere il cervello con un po' di fumo. Verità semplici, dette con l'aria di chi non deve più chiedere il permesso a nessuno.

Abbiamo passato anni a chiederci se fosse un'icona gay, una musa di Strehler, un'interprete jazz. Lei intanto era altrove. Era impegnata a diventare amica della sua stessa malinconia, a trattare la depressione come un ospite sgradito da tenere a bada, non come un mostro invincibile. Ha insegnato a un Paese intero che si può essere "rotte" eppure magnifiche. Che si può avere la voce incrinata dal tempo e cantare ancora meglio, perché in quella crepa ci passa la vita intera.

Il finale, poi, lo ha scritto lei. Niente drammi, niente scene madri. Solo l'idea pragmatica di un corpo che diventa cenere e va nel mare, magari a Venezia, magari dove capita. Tutto qui: la leggerezza. Quel vestito di Dior, citato come un vezzo, era in realtà l'ultimo sberleffo alla morte: tu mi prendi, d'accordo. Ma decido io come vestirmi per l'appuntamento.

Ornella Vanoni ci lascia senza eredi. Non c'è nessuno che sappia tenere insieme con la stessa grazia l'alto e il basso, la tragedia e la barzelletta, la cultura e l'istinto. Rimane quella sua risata, un suono che sapeva di libertà. Rimane la sensazione precisa che, alla fine di tutto, lei abbia vinto. Non contro la morte, quella tocca a tutti. Ha vinto contro la paura di essere se stessa. E scusate se è poco.

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