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Fantasmi, Padri e Debiti di Gratitudine: RIP e la lezione di Nichiren Daishonin

Il film RIP usa i fantasmi per parlare del rapporto genitori-figli. Un'analisi del film e del suo legame con il debito di gratitudine di Daishonin.

Il film di D'Ambrosi e De Santis non è solo una ghost story: è un dolce e comico trattato sull'importanza di perdonare i genitori, come insegna anche la filosofia buddista di Nichiren Daishonin.

[di Massimo Righetti]

RIP - foto di scena

Gira in questi giorni nelle sale, fresco di presentazione ad Alice nella Città, un oggetto cinematografico che sembra sfidare ogni convenzione del panorama italiano. Si intitola RIP, e già il titolo tradisce un'audacia rara, ed è l'opera prima di Alessandro D'Ambrosi e Santa De Santis.

È una ghost story, certo. Ma dimenticate le case infestate e le porte che cigolano nella notte. L'infestazione, qui, è di natura diversa: intima, viscerale. Si annida dove nessun esorcista può raggiungere: nel cuore. Profondamente romana.

La premessa possiede quella logica paradossale che avrebbe fatto sorridere Tim Burton in gita ai Fori Imperiali: il protagonista, Leonardo, è un "morto che cammina" che guadagna da vivere scrivendo necrologi. Sprezzanti, naturalmente. Un uomo svuotato, cinico, in procinto di firmare il divorzio e forse, perché no, anche l'addio definitivo alla vita. La sua esistenza-limbo si frantuma d’un tratto quando muore suo padre Marcello, custode al Verano, caduto durante una colluttazione grottesca mentre tentava di sventare il furto di una bara.

Fine della storia? Tutt'altro. È l'inizio.

Rip - Foto di Scena
Il padre ritorna. Ma RIP non è Ghost, e Leonardo non è Whoopi Goldberg. Il fantasma che gli appare non ha il volto del genitore anziano e assente che ricordava. È Marcello giovane: un "erotomane e tabagista" degli anni Sessanta, vitale, magnetico e completamente privo di memoria della sua vita da padre. A perseguitare Leonardo non è il fantasma di suo padre ma il fantasma dell'uomo che suo padre era stato prima che lui nascesse, prima che la paternità lo addomesticasse.

Ed è precisamente qui che il film cessa di essere "soltanto" una commedia nera e sfiora il più antico nodo irrisolto dell'esistenza umana: il rapporto con i genitori.

La regista Santa De Santis, durante un recente incontro col pubblico, ha individuato il nucleo: il messaggio è che "i genitori, prima di essere genitori, sono esseri umani... che possono avere delle fragilità... e che vanno perdonati". E soprattutto, ha aggiunto, bisognerebbe comprenderlo prima che sia troppo tardi.

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Il dramma è che per Leonardo quel momento è già trascorso. Il padre è morto. Il rapporto, irrecuperabile.

O forse no?

C'era un monaco buddista giapponese, nel XIII secolo, che su questa faccenda del "troppo tardi" aveva costruito una filosofia. Si chiamava Nichiren Daishonin e scrisse un trattato intitolato Ripagare i debiti di gratitudine. Per Nichiren, il debito verso i propri genitori è cosmico, impagabile. È un concetto, sosteneva, che persino gli animali sembrano comprendere nel loro istinto ("la vecchia volpe non dimentica la collinetta in cui è nata"), mentre gli esseri umani, con la loro complessa coscienza, tendono invece a dimenticare.

Leonardo è il manifesto vivente di questa amnesia. È così concentrato sulla propria apatia da non vedere né il debito né il creditore. Ma come si ripaga, secondo Nichiren, un debito così vasto? Non basta portare la mamma a fare la spesa. L'unico modo per ripagare veramente i genitori è "studiare e comprendere a fondo il Buddismo e diventare un sapiente".

È un concetto che suona strano, quasi paradossale. Nichiren, infatti, nota che il principe Siddhartha divenne il figlio più devoto proprio disobbedendo al padre e andando a cercare l'Illuminazione. La logica è questa: il debito è così immenso che non lo ripaghi semplicemente obbedendo o restando al loro fianco. L'unico modo per saldarlo è raggiungere il potenziale umano più alto. Fuggendo dal palazzo e intrapreso il percorso per diventare un sapiente e infine un Buddha, Siddhartha non ha tradito suo padre, lo ha onorato nel modo più profondo. Raggiungendo l'illuminazione, non ha salvato solo sé stesso; ha offerto un beneficio universale che si estendeva, prima di tutto, ai genitori che gli avevano dato la vita. Ha compiuto l'atto di devozione filiale supremo: non restare, ma diventare.

RIP - foto di scena
Leonardo è l'anti-Siddhartha. Non cerca l'illuminazione: cerca l'uscita di sicurezza. È talmente imprigionato nel suo pessimismo cosmico che l'universo è costretto a intervenire con una mossa da manuale: se il figlio non va verso la montagna dell'illuminazione, la montagna, travestita da padre tabagista, va dal figlio.

Il film di D'Ambrosi e De Santis mette in scena questa dottrina con grazia irriverente. Se non diventi "sapiente" spontaneamente, ci penserà il fantasma di tuo padre a farti da maestro, arrivando persino a possederti fisicamente per costringerti a vivere, ad aprirti all'amore, a smettere di essere uno "stronzo sagace".

RIP ci rivela una verità elementare ma dolorosa: per perdonare il genitore, devi prima incontrare l'essere umano. Leonardo non ha mai compreso quel padre esecrato, odiato perché lo vedeva esclusivamente attraverso la lente opaca del fallimento filiale. L'arrivo del fantasma-Marcello, l'uomo, gli permette finalmente di vedere, e quindi perdonare, il padre.

Questa moderna favola nera, dunque, è molto più di una commedia. È un esorcismo collettivo. Un promemoria sul fatto che i debiti di gratitudine non vanno in prescrizione con la morte.

Anzi.

RIP ci avverte, con dolcezza ironica, che, se non ci affrettiamo a risolvere le nostre questioni genitoriali prima che sia troppo tardi, rischiamo seriamente di ritrovarci il fantasma di nostro padre in versione Dolce Vita che ci usa come un burattino per rimediare ai nostri e ai suoi errori.

E francamente, sembra molto più faticoso che fare una telefonata ora.

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