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Andiamo a bere l'ultima, bòcia

Oltre la recensione di Città di Pianura. Un'analisi dell'amicizia maschile, tra silenzi, "cazzeggio" e birre. La vita vera, non da libri.

L'amicizia, il silenzio e il "cazzeggio" nel rito laico di Le Città di Pianura di Francesco Sossai.

[di Massimo Righetti]

Le Città di Pianura- scena del film

Diciamolo subito. Questa non sarà una classica recensione su Le Città di Pianura, il film di Francesco Sossai al cinema grazie a Lucky Red. Potrei parlarvi della pianura veneta, della nebbia che si mangia i capannoni, dello stordimento dei protagonisti, della tecnica di ripresa e cose così. Roba da critici. Ma non lo farò.

Perché questa volta sarebbe un peccato. Sarebbe un peccato mettere in bocca al lettore un sapore che non ha ancora assaggiato, dirgli se è "bello" o "brutto". Il cinema di Le Città di Pianura è un'altra cosa. È un rito. Si esce di casa, si paga un biglietto, ci si siede al buio con degli sconosciuti e si fissa un lenzuolo bianco che si illumina e ti riempie di massime venete. È una messa laica. Quindi, andate a vederlo. Comunque. E poi, se volete, ne parliamo.

GUARDA IL TRAILER

Quello che farò qui è diverso. 

È rubare. 

È prendere uno dei temi che il film ti lascia in tasca, come un sasso levigato. Un tema che ronza anche dopo i titoli di coda. L'amicizia. O meglio, quella strana cosa che succede tra uomini, quella che il film ti sbatte in faccia senza dirtelo. Quella fatta di silenzi. Di chiacchiere futili. E di birra.

Ecco. Parto da qui.

Ci sono due modi di essere amici. O forse ce n'è uno solo, e l'altro se lo sono inventati nei libri. Perché nei libri gli amici parlano. Oh, se parlano. Si dicono cose. Si aprono il cuore. Si capiscono. È tutto un "Tu cosa pensi?" e "Io mi sento così". Si scambiano opinioni sull'universo e, alla fine, si abbracciano. Roba da matti. Roba che, se la vedi fare nella vita vera, pensi che stiano girando un film. O che siano ubriachi.

Poi c'è la vita. Quella vera, quella che puzza un po' di umido e di capannone, quella che vedi in certi film che sembrano documentari sulla nebbia. Quella che sa di pianura, dove l'orizzonte è una riga così netta che sembra disegnata da un bambino. In questa vita, l'amicizia maschile è una lingua arcaica. Una lingua tramandata di generazioni in generazioni senza le parole giuste. È un artigianato fatto di silenzi. E poi, certo, di birre.

Il silenzio. 

Non il silenzio imbarazzato, quello è per i dilettanti. Questo è un silenzio materico. È un silenzio pieno, un blocco di marmo. Sta lì, in mezzo al tavolo, e i due lo guardano, e lo scolpiscono con i pensieri. È un silenzio che dice: "Non c'è bisogno". Che è la frase più intima che due amici possano dirsi. "Non c'è bisogno di parlare".

Immaginate la scena. Due tizi. Uno ha studiato, ha la testa piena di cose inutili, tipo Kant o la differenza tra un'anfora e un cratere. L'altro ha le mani grosse e la schiena che fa crac quando si alza. Si siedono. Bar. Tavolino di formica. Una luce al neon che ronza. Ordinano. Il silenzio cala, denso, comodo, come un vecchio maglione. Passano cinque minuti. L'unico suono è il respiro e, ogni tanto, il vetro che tocca il tavolo. Poi uno dei due dice: "Freddo, eh?" E l'altro risponde: "Già". Ecco. L'hanno fatto. Hanno appena parlato della crisi climatica, della solitudine universale, del fatto che la vita è breve e che la sua ex moglie gli ha rigato la macchina. Hanno detto tutto. In due parole. O magari non in due. Magari in duecento. Perché poi, subito dopo, parte il cazzeggio. Quell'arte raffinatissima di riempire il vuoto con chiacchiere che sembrano non voler dire nulla, ma che sono un modo per esorcizzare la disperazione, per dire "siamo ancora qui", in questa vita che non ti sta portando da nessuna parte.

E poi c'è l'alcol. 

L'alcol, in questa lingua, non è un vizio. È il dizionario. L'alcol è il lubrificante che permette a due ingranaggi arrugginiti di girare senza stridere. Dal bar del paese all'osteria sulla statale, ogni bicchiere ha il suo perché, tra amicizie, silenzi e vecchie storie che ritornano.

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Il tsss di una bottiglia che si apre. È un suono bellissimo. È un "Ciao, come va?". Il clack del vetro contro il vetro. Quello è un trattato di filosofia. È un "Ci sono, amico. Non ti chiedo niente. Bevi". Il gesto di riempire il bicchiere dell'altro prima che sia vuoto, un "Mi prendo cura della tua sete, che è l'unica cosa di te di cui mi permetti di prendermi cura". È un'intimità ruvida. Non è tenera. Non cerca la morbidezza. Se provi ad abbracciare uno così, magari ti dà una spinta. O, peggio, ti ringhia e non ti parla per tre settimane. Forse perché, come dice uno di loro, "siamo troppo vecchi per crescere". E allora non resta che un patto. Un patto non scritto che dice: "Siamo due solitudini, ma stasera le mettiamo sedute una accanto all'altra. Non si devono toccare. Si guardano e basta. E bevono".

È ambiguo? Certo che è ambiguo. L'intimità vera è sempre ambigua. Quella chiara, definita, spiegata... quella è roba da libri.

Poi torni a casa. La nebbia ti entra nelle ossa. Apri un libro. C'è scritto: "L'amicizia è..." e tu lo chiudi. Perché hai appena bevuto una cosa che sui libri non c'è. Hai bevuto il vuoto che c'è tra due persone, e lo hai trovato pieno. Pieno di cosa? Boh. Pieno di niente. E di tutto. Come una birra.

Basta che uno, a fine serata, dica: "Andiamo a bere l'ultima, bòcia". 

Tutto il resto è fuffa. Roba da libri.

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Le Città di Pianura

Durata: 98 minuti

Regia: Francesco Sossai

Interpreti e personaggi: Filippo Scotti (Giulio), Sergio Romano (Carlobianchi), Pierpaolo Capovilla (Doriano), Roberto Citran (Cavalier Fadìga), Andrea Pennacchi (Genio)

Soggetto: Francesco Sossai, Adriano Candiago

Sceneggiatura: Francesco Sossai, Adriano Candiago

Produttore: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa

Casa di produzione: Vivo Film, Rai Cinema, Maze Pictures

Distribuzione: Lucky Red

Fotografia: Massimiliano Kuveiller

Montaggio: Paolo Cottignola

Musiche: Krano

Scenografia: Paula Meuthen

Costumi: Ilaria Marmugi, Guillem Soler Pou

Trucco: Fenix Guzman

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