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Lo spettacolo siamo Noi: da Truman a Banksy, la critica divorata dal sistema

La critica alla 'società dello spettacolo' di Debord attraverso The Truman Show e l'arte di Banksy. Un viaggio nella ribellione e nel suo recupero.

Da Godard, passando per The Truman Show e Fight Club fino a Banksy per svelare come la ribellione contro la società dello spettacolo sia diventata il suo prodotto più desiderabile.

[di Massimo Righetti]

Edward Norton in Fight Club

Nel cuore pulsante della nostra era, satura di immagini e narrazioni, la diagnosi formulata da Guy Debord più di mezzo secolo fa risuona con precisione quasi profetica. La sua opera capitale, La società dello spettacolo, ha svelato come la nostra esistenza si sia progressivamente distaccata dal vissuto per abitare la sua rappresentazione. Lo spettacolo, nella visione debordiana, è "un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini" — una Weltanschauung divenuta concreta, un "capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine". Di fronte a questo sistema totalizzante, il cinema e l'arte hanno messo in scena potenti allegorie della nostra condizione, tentando al contempo di sabotarla dall'interno. Analizzare la traiettoria che unisce le prigioni mediatiche di The Truman Show, la rivolta nichilista di Fight Club e la critica mercificata di Banksy significa tracciare la mappa di un'evoluzione inquietante: quella di un sistema capace di assorbire e rivendere persino la propria negazione.

Jim Carrey in The Truman Show
Il cinema ha offerto le incarnazioni più letterali della tesi debordiana. The Truman Show (1998) ne è l'allegoria perfetta. La vita del protagonista, Truman Burbank, realizza l'aforisma secondo cui tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. Egli abita un'esistenza interamente sceneggiata, un simulacro costruito per il consumo di un pubblico globale che contempla passivamente la sua vita come fosse la propria. È l'allegoria definitiva di un'umanità separata dalla realtà, unificata soltanto dal rapporto irreversibile con il centro che ne mantiene l'isolamento.

Se Truman vive la prigione dello spettacolo, il protagonista senza nome di Fight Club (1999) ne incarna la nevrosi e la violenta reazione. La sua identità è un catalogo IKEA; la sua esistenza è definita dalle merci che possiede, uno slittamento generalizzato dell'avere nell'apparire. Il club di lotta e il successivo Progetto Mayhem rappresentano un tentativo disperato di recuperare l'autenticità attraverso il dolore fisico e la distruzione dei simboli del capitale, una rivolta contro l'alienazione prodotta dal consumismo, un tentativo di ritrovare il reale nel caos.

GUARDA LA SCENA FINALE DI FIGHT CLUB: https://www.youtube.com/watch?v=EZ8-fbBF2lU

Eppure, entrambi i film, pur criticando ferocemente lo spettacolo, ne divengono prodotti di enorme successo, dimostrando la capacità del sistema di trasformare la critica in intrattenimento. È qui che si manifesta il meccanismo del recupero, quella dinamica perversa per cui il capitalismo spettacolare assorbe e mercifica anche la propria contestazione più radicale.

Questa dinamica di attacco e assorbimento trova il suo strumento teorico nel détournement, il dirottamento sovversivo dei linguaggi dello spettacolo rivolti contro sé stessi. Un precursore di questa pratica nel cinema fu Jean-Luc Godard, che tentò di sabotare la macchina spettacolare dall'interno, frammentando la narrazione per scuotere lo spettatore dalla sua contemplazione e renderlo consapevole dell'ideologia veicolata dalle immagini. La sua era una guerriglia semiotica che mirava a ricordare come, "in un mondo che è veramente sottosopra, il vero è un momento del falso".

Se Godard operava in un contesto d'avanguardia intellettuale, l'artista anonimo Banksy ha portato il détournement nelle strade, rendendolo virale. Le sue opere dirottano l'iconografia della cultura di massa con ironia tagliente, muovendo una critica feroce al capitalismo, alla guerra, al consumismo. Proprio qui, però, si manifesta il paradosso finale e la vittoria dello spettacolo integrato. La critica radicale di Banksy è stata completamente assorbita e trasformata in merce di lusso.

Girl with Baloon
L'apice di questo cortocircuito si è raggiunto nel 2018, quando la sua opera Girl with Balloon si è autodistrutta dopo essere stata battuta all'asta per oltre un milione di sterline. Quello che doveva essere il gesto definitivo contro la mercificazione dell'arte è divenuto un evento mediatico globale, uno spettacolo supremo che ha fatto schizzare il valore dell'opera "distrutta", poi rivenduta per la cifra record di 18,6 milioni di sterline. In questo atto si compie il destino della critica contemporanea: la negazione non viene censurata, ma celebrata e prezzata. L'insoddisfazione, come aveva previsto Debord, è divenuta essa stessa merce.

Il percorso che muove dalla vita-spettacolo di Truman, attraversa la rabbia anticapitalista di Tyler Durden e approda alla ribellione brandizzata di Banksy rivela una mutazione genetica della nostra società. Non siamo più soltanto spettatori passivi di un mondo di immagini; siamo diventati i curatori attivi della nostra stessa alienazione, mettendo in scena le nostre vite sui social media. La critica di Banksy, consumata e condivisa come un qualsiasi altro contenuto, offre una catarsi momentanea, un'illusione di consapevolezza mentre continuiamo a partecipare al gioco.

In questo senso, il suo successo non è il fallimento della critica, ma la sua più lucida e tragica rappresentazione: il fantasma della sovversione che infesta la macchina dello spettacolo, diventandone, infine, l'attrazione più desiderabile.

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