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Bonifacio Angius e lo spettacolo della Memoria, dove il vero è un momento del falso

CONFITEOR di Bonifacio Angius. Un'analisi profonda su metacinema, famiglia e società dello spettacolo. Il film più intimo e teorico del regista.

Il capolavoro metacinematografico di Angius chiude il cerchio sulla sua ossessione per la famiglia, interrogando la realtà nell'era dello spettacolo di Guy Debord.

[di Massimo Righetti]
Bonifacio Angius - Confiteor

C'è un momento, in CONFITEOR - Come Scoprii che non avrei fatto la rivoluzione, che svela l'intera architettura filosofica del cinema di Bonifacio Angius. Un bambino, Antonio, si rivolge al padre-regista che sta guidando un'auto per una scena: «Papà, ma se questo film è ispirato alla realtà perché stai guidando? Tu non hai la patente». In questa domanda innocente risiede la chiave di un'opera monumentale, un flusso di coscienza che si fa teoria della rappresentazione. Con il suo quarto lungometraggio, Angius non si limita a confessare i propri peccati: mette in scena la confessione stessa del cinema, la sua meravigliosa incapacità di afferrare la vita e il suo potere di svelare una verità più profonda proprio attraverso la finzione. È un'immersione totale nello spettacolo della memoria, dove, come intuì Guy Debord, "in un mondo che è veramente sottosopra, il vero è un momento del falso".

Il dispositivo metacinematografico di Confiteor, è un vertiginoso gioco di specchi. Angius interpreta una versione di sé, affida al figlio il ruolo di sé stesso bambino e incarna contemporaneamente la figura del proprio padre. Questo cortocircuito tra persone e personaggi si svolge dentro un teatro di posa, spazio volutamente artificiale che diventa luogo della mente. Qui, tra i manifesti dei film precedenti e gli attrezzi del mestiere, il regista non riproduce la realtà ma ridisegna i luoghi del ricordo. Una scelta che sposa la diagnosi debordiana: se tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione, l'unico modo per essere sinceri è esibire la costruzione, mostrare il green screen dietro il paesaggio dell'anima. Il cinema di Angius diventa così uno spettacolo integrato che, invece di nascondere i suoi meccanismi, li espone per interrogare la natura della nostra esistenza mediata da immagini. La confessione non riguarda solo i traumi del passato, ma la condizione stessa dell'artista contemporaneo che tenta di ordinare il caos della vita sapendo che ogni rappresentazione è, in fondo, illusione.

GUARDA IL TRAILER: https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=VhEf2ZAli-8

Questa resa dei conti è anche il culmine di un'ossessione che attraversa tutta la filmografia di Angius: la famiglia. Se Perfidia (2014) era il ritratto spietato di un nucleo patriarcale fondato sull'incomunicabilità e su modelli genitoriali oppressivi, Ovunque proteggimi (2018) ne esplorava la ricerca disperata, con due anime ai margini che tentavano di costruire un nuovo legame affettivo in fuga dalla società. Con I giganti (2021), la famiglia diventava assenza, vuoto generatore di autodistruzione per un gruppo di uomini incapaci di elaborarne la mancanza. Confiteor sintetizza e trascende questo percorso. La famiglia torna a essere un clan corale che vive tutto nello stesso palazzo, ma filtrata, ricostruita, quasi esorcizzata attraverso la lente del cinema. Angius non la osserva più dall'esterno: la abita in una triplice veste, figlio, padre di sé stesso e padre di suo figlio, per capire dove finisce la memoria e dove inizia lo spettacolo.

La rivoluzione che Angius scopre di non poter fare non è politica, ma esistenziale e artistica. È la presa di coscienza che il cinema, pur essendo "l'unica cosa che non mi ha mai tradito", non può contenere la vita. Per intraprendere questo viaggio serve una spinta potentissima, che il film stesso rivela:

 «ci vuole sempre amore per raccontare una storia, e per raccontarla ancora meglio lo devi aver perduto, l'amore intendo». 

Confiteor
Questa ammissione dolorosa culmina in una sequenza finale straordinaria, dove il copione del regista si scontra con l'imprevedibile libertà del suo attore-figlio. È il momento in cui ti accorgi che non riesci più a passare dalla vita alla finzione, o dalla finzione alla vita, perché stai perdendo il controllo di entrambe. Un atto di involontaria disobbedienza sul set si trasforma in invito all'emancipazione. La vittoria non è dello spettacolo che divora la realtà, ma della vita che rifiuta di diventare merce, rappresentazione controllata. L'atto d'amore definitivo, il vero lascito di Angius, è questa liberazione. La confessione di non poter fare la rivoluzione diventa l'unica, autentica rivoluzione possibile: accettare che un figlio possa uscire dall'inquadratura, libero di abitare il proprio vissuto, al di là di ogni spettacolo.

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