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Jay Kelly: L’arte di perdersi (senza trovare nulla)

La recensione di Jay Kelly, film di Baumbach con Clooney. Un'opera ambiziosa ma superficiale e deludente presentata al Festival di Venezia.

Il nuovo film di Noah Baumbach con George Clooney e Adam Sandler, presentato a Venezia, delude le aspettative: un viaggio pretenzioso che si perde tra cliché e dialoghi vuoti.

[di Betty Sellers]

George Clooney - Jay Kelly

Nell’ambito della rassegna I grandi festival: da Venezia a Roma e nel Lazio, al Cinema Nuovo Olimpia è approdato Jay Kelly, nuovo film di Noah Baumbach con George Clooney, Adam Sandler, Laura Dern e Billy Crudup. Presentato all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, il film prometteva di essere una riflessione amara e ironica sulla fama, sull’amicizia e sulle scelte che definiscono una vita. Un progetto ambizioso, almeno sulla carta, che però si rivela ben presto molto meno profondo di quanto vorrebbe far credere.

Eppure, all’inizio, il prologo lascia ben sperare: un piano sequenza che ci porta nel cuore di un set hollywoodiano, tra decine di figure che si muovono in un caos perfettamente orchestrato. Qui Jay Kelly, star venerata e isolata, appare in tutta la sua grandezza fragile: un uomo circondato da persone che vivono per servirlo, ma incapace di stabilire con loro un contatto reale. È un inizio potente, un momento che suggerisce un film pronto a scavare dietro le quinte dell’immagine pubblica di una celebrità.
Purtroppo, quel barlume si spegne in fretta. Dall’America all’Europa, il racconto deraglia in una serie di episodi scollegati, in cui i dialoghi sembrano usciti da un generatore automatico di emozioni, e le battute che vorrebbero strappare un sorriso risultano prevedibili. Ciò che dovrebbe essere una riflessione esistenziale diventa un flusso dispersivo di scene che si accatastano senza coerenza, come se Baumbach avesse voluto girare cinque film diversi senza sceglierne uno solo.

Adam Sandler - Jay Kelly
George Clooney interpreta un attore di fama mondiale tormentato dai sensi di colpa, ma la sua recitazione, piatta e ripetitiva, non riesce mai a far emergere la complessità del personaggio. La sua ossessione per la perfezione professionale – simboleggiata dalla mania di rifare la stessa scena all’infinito – resta un accenno superficiale, una trovata narrativa che non evolve. Accanto a lui, Adam Sandler nel ruolo del manager fedele (e poi tradito) avrebbe potuto dare spessore al racconto, ma rimane confinato in secondo piano, sacrificato a favore di un viaggio attraverso l’Europa che somiglia più a un dépliant turistico che a una vera evoluzione interiore. 
Parigi, la campagna francese, la Toscana intorno a Pienza: location di grande fascino, che però nel film appaiono come cartoline patinate, prive di autentica necessità narrativa. Gli italiani, interpretati da attori credibilissimi come Alba Rohrwacher e Galatea Ranzi, vengono relegati a stereotipi folkloristici: feste in piazza, bicchieri di vino, sorrisi generici. Più che personaggi, sembrano comparse utili a confermare l’immagine da souvenir che Hollywood continua a proporre del nostro Paese.
A peggiorare la situazione, alcune scene al limite dell’assurdo. L’inseguimento su un treno, in cui il protagonista cattura un ciclista improvvisamente trasformatosi in ladro, lascia sconcertati più che coinvolti. Ancor più grottesco è il momento in cui Jay Kelly, abbandonato da tutti, vaga di notte in una foresta toscana, in cerca di sé stesso: una sequenza che vorrebbe essere potente ma che scivola nel ridicolo involontario.


Il problema di fondo è che il film non sa che cosa vuole essere. Non è una commedia, non è un dramma psicologico, non è un road movie, non è una satira, non è una riflessione sul cinema né un ritratto familiare. È tutto e niente insieme. Alcune opere ibride riescono a sorprendere proprio grazie a questa ambiguità, ma Jay Kelly resta sospeso in una terra di mezzo, incapace di trovare un tono coerente o un messaggio chiaro. Con una durata di oltre due ore, l’esperienza diventa via via più faticosa. La narrazione si dilata inutilmente e ogni nuova scena aggiunge ben poco, se non un altro scorcio pittoresco o un dialogo già sentito. Alla fine si ha la sensazione di aver assistito a un lungo esercizio di stile, una sorta di autocelebrazione che lascia dietro di sé solo noia e frustrazione.

Si esce dalla sala con una domanda inevitabile: perché un film così, tanto costoso quanto confuso, dovrebbe trovare spazio in un festival come Venezia? Forse perché ha i nomi giusti e le location giuste, ma questo non basta a giustificare due ore di cinema che non lasciano traccia.
In definitiva, Jay Kelly si presenta come una riflessione sulla sostanza dietro l’apparenza, ma finisce per essere esso stesso pura apparenza. Chi cerca un film capace di emozionare, sorprendere o far riflettere farebbe bene a guardare altrove: di questa pellicola ci si dimenticherà presto, e forse è meglio così.

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