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Frontiere mobili nel primo Contrechamps del Festival di Film di Villa Medici

La sezione Contrechamps del Festival di Villa Medici indaga il concetto di frontiera attraverso 4 corti su migrazione, esilio e natura violata.

La sezione Contrechamps del Festival di Film di Villa Medici esplora i temi dell'esilio, della migrazione e della natura violata attraverso quattro cortometraggi indimenticabili.

[di Betty Sellers]

Paci: Centro di permanenza temporanea

All’interno della V edizione del Festival di Film di VillaMedici, la sezione Contrechamps si è confermata come uno spazio privilegiato per il dialogo tra la creazione contemporanea e il patrimonio cinematografico, offrendo uno sguardo “altra-angolato” sulle urgenze della società attuale. Non si tratta di opere in concorso, ma di cortometraggi che indagano i margini – formali, geografici, politici – del nostro tempo. Tra fiction, documentario e installazione video, quattro film hanno composto quest’anno un mosaico visivo e concettuale sull’esilio, la migrazione, la frontiera, l’umanità in fuga e la natura violata.

Centro di permanenza temporanea di Adrian Paci (2007, Italia, 6 min)

Un’opera fulminea ma di rara densità simbolica. Un gruppo di migranti cammina in fila indiana su una scaletta che conduce… al nulla. L’aereo non c’è. Il viaggio non avverrà. Ma il moto resta. In un’atmosfera sospesa tra attesa e fallimento, Adrian Paci – artista al centro di una mostra attualmente in corso a Roma presso Conciliazione 5 (“No Man is an Island”) – riesce a condensare in pochi minuti il paradosso esistenziale della migrazione: il desiderio di partire, la mancanza di approdo, lo sforzo continuo in un vuoto simbolico e reale.

La scala senza meta diventa icona visiva di una società che illude senza accogliere, che organizza flussi per poi negare sbocchi. Laddove l’apparenza mostra ordine, la sostanza rivela alienazione. Il “centro di permanenza” è in realtà un limbo, un non-luogo in cui l’individuo perde identità, dignità, senso. Paci lavora sul significante: mostra la scaletta, il cammino, i volti. E lascia al significato – l’assenza, l’esclusione, la sospensione – il compito più duro: ferire.

Bab Sebta di Randa Maroufi (2019, Francia/Marocco/Qatar/Libano, 19 min)

Bab Sebta - Randa Maroufi
Girato interamente in studio ma con una verità disarmante, il corto di Randa Maroufi, borsista a Villa Medici, è una riflessione meticolosa e lucida su uno dei confini più complessi e dimenticati d’Europa: Ceuta, enclave spagnola in territorio marocchino. Con uno stile che oscilla tra documentario e performance, la regista ricostruisce scene di vita reale – traffici, dormitori improvvisati, perquisizioni, passaggi clandestini – e ci immerge in una topografia dell’incertezza, un dedalo in cui i corpi diventano ostacoli o strumenti.

Particolarmente toccante la dedica al padre, ex lavoratore di frontiera: il personale si intreccia così al politico, il ricordo familiare si fa testimonianza collettiva. Il film si muove come un flusso coreografico di umanità dolente, e i piani sequenza, le inquadrature aeree, i dettagli statici o iperrealisti ci costringono a guardare, più che a osservare. Un’opera che parla della frontiera non come linea, ma come condizione: di resistenza, sopravvivenza, ambiguità.

Deux faisceaux blancs groupés et rotatifs di Enrique Ramírez (2017, Francia/Cile, 25 min)

Deux faisceaux blancs groupés et rotatifs di Enrique Ramírez
Tra le quattro opere, forse la più intensamente poetica. Enrique Ramírez, anche lui borsista di questa edizione, costruisce un’architettura audiovisiva attorno al faro del Créac’h, sull’isola di Ouessant, in Bretagna. Ma non è tanto il faro fisico a guidare lo spettatore, quanto la sua luce simbolica: un intermittenza che attraversa la notte come memoria del passato, eco del presente e sogno dell’utopia.

Attraverso immagini ipnotiche dell’oceano, girate a Valparaíso e nel Finistère, e una colonna sonora che si sincronizza con il ritmo dei due fasci di luce, Ramírez crea un palinsesto di voci: Martin Luther King, Salvador Allende, Richard Nixon… Discorsi epocali che accompagnano il moto delle onde e degli elementi. Il mare, spesso confine fisico per i migranti, qui diventa spazio mentale, mappa emotiva, zona d’ascolto. Un’opera rarefatta e struggente, che umanizza la memoria storica attraverso l’estetica della lentezza e dell’immaginazione.

Les Habitants di Artavazd Pelechian (1970, Armenia, 9 min)

Les Habitants di Artavazd Pelechian
Un classico senza tempo, forse oggi più attuale che mai. Pelechian ci regala un film senza parole, ma traboccante di senso: nessun essere umano in scena, solo animali. Stormi di uccelli, branchi, mandrie, fuggono da una minaccia invisibile che però noi riconosciamo: l’uomo stesso. Un montaggio serrato e insieme contemplativo racconta la rottura dell’equilibrio naturale, mostrando prima la libertà, poi il terrore, infine la reclusione.

È un cinema ecologico, nel senso più radicale: denuncia, con la forza del silenzio e del bianco e nero, la progressiva devastazione dell’ambiente e dell’anima animale, vittima dell’antropocentrismo predatorio. Alla fine, gli animali non sono più liberi, ma ingabbiati, osservati, venduti. Il corto, girato più di 50 anni fa, anticipa tematiche oggi centrali: la crisi climatica, il rapporto uomo-natura, l’etica dello sguardo.


I quattro cortometraggi della sezione Contrechamps, pur diversi per stile, epoca e linguaggio, compongono un percorso coerente e necessario: tutti interrogano l’idea di frontiera, sia essa fisica, politica, identitaria o ecologica. Tutti parlano di moti invisibili, di desideri negati, di fughe senza arrivo, di memorie che resistono.

È un cinema che non cerca il compiacimento, ma l’urgenza. Che non dà risposte, ma attiva pensiero. Che trova nella forma breve e nella ricerca estetica un potente strumento per resistere all’omologazione.

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