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Frankenstein di del Toro: L'Anacronismo Svelato che Trasforma il Film in un Capolavoro Pittorico

Scopri perché l'estetica preraffaellita nel Frankenstein di del Toro non è un errore, ma una geniale scelta artistica. Un'analisi unica del film.

Oltre la recensione, un'analisi della folgorante estetica preraffaellita nel 'Frankenstein' di Guillermo del Toro, una scelta stilistica che riscrive le coordinate temporali del romanzo per un fine tematico più profondo.

[di Mina Jane]

Mia Goth - Frankenstein

Ieri sera, le luci del cinema Nuovo Olimpia di Roma si sono accese per una delle proiezioni più attese della rassegna Venezia a Romae nel Lazio: il Frankenstein di Guillermo del Toro. L'opera, accolta alla Mostra del Cinema di Venezia tra standing ovation commosse e ricezione critica tanto complessa quanto polarizzata, si manifesta come monumentale poema gotico e visionario. Il dibattito digitale pullula già di giudizi contrastanti: dall'esaltazione per il "maestrone del cinema" alle riserve su una narrazione che "talvolta s'inceppa".

Eppure il nostro proposito non è accrescere questo coro dissonante. Poiché il cinema appartiene al regno dell'arte e il giudizio resta irriducibilmente soggettivo, ci addentriamo in un territorio meno battuto ma essenziale per decifrare la visione del regista: l'architettura pittorica dell'opera e il suo affascinante paradosso storico.

Dante Gabriel Rossetti
Al cuore della nostra disamina, si annida una discrepanza temporale che potrebbe apparire come clamoroso errore. Il romanzo di Mary Shelley, Frankenstein; o, il moderno Prometeo, vede la luce nel 1818 e si radica negli ultimi decenni del Settecento. Quell'epoca respirava il linguaggio del Neoclassicismo e dell'emergente Romanticismo, di cui l'opera stessa costituisce pilastro letterario. Tuttavia, ogni inquadratura del film di del Toro evoca con perentoria evidenza un'altra sensibilità, un diverso orizzonte estetico: quello della Confraternita dei Preraffaelliti, sorta a Londra soltanto nel 1848, trent'anni dopo la pubblicazione del capolavoro shelleyano Un'estetica preraffaellita in un film fedelmente ambientato nel tardo '700, inizi ‘800, sarebbe, a tutti gli effetti, un anacronismo.

Qui si dischiude, però, la geniale e deliberata strategia di Guillermo del Toro. Il cineasta ha consapevolmente traslato l'ambientazione cronologica in avanti, collocandola precisamente nell'epoca vittoriana del 1857. Attraverso questa mossa, l'ispirazione preraffaellita cessa di configurarsi come svista per trasformarsi in manifesto poetico, scelta stilistica perfettamente consonante con il nuovo quadro storico. Il gotico si salda così al preraffaellismo, l'arte nordica al romanticismo al tramonto. La questione si sposta dal "se" al "perché" di questa trasmutazione temporale.

La risposta risiede nella perfetta consonanza tra etica preraffaellita e poetica deltoriana. I Preraffaelliti insorgevano contro l'artificiosità della pittura accademica, anelando al ritorno verso la natura, il dettaglio minuzioso, una sincerità quasi sacrale. Del Toro compie identico gesto nel cinema: la sua devozione per la tradizione artigianale, per gli effetti pratici e le scenografie materiche in antitesi all'abuso della computer grafica, riecheggia la medesima etica del ritorno all'artigianato che animava quel movimento pittorico. Le immagini dell'opera, pregiate e intricate, cesellate con dettagli d'epoca infinitesimamente esatti — come vetrate tecnologicamente perfette — e l'uso audace del colore, specialmente i rossi e i verdi soprasaturi che incendiano le ombre, costituiscono la trasposizione cinematografica immediata di quella vivida e sontuosa estetica.

Ma la connessione si approfondisce ulteriormente. I Preraffaelliti attingevano a soggetti letterari e medievali attraverso un approccio intensamente drammatico e sentimentale, cifra stilistica che del Toro abbraccia integralmente, elevando la sua opera a melodramma piuttosto che horror. Quell'estetica, con la sua attenzione quasi ossessiva ai volti gravidi di emozione e alla natura, si presta mirabilmente a narrare la bellezza dell'imperfezione — tema cardine del film — manifestandosi con potenza nel design della Creatura (Jacob Elordi), concepita non come cadavere mutilato, bensì come tentativo fallito di forgiare "l'uomo perfetto": una sorta di statua d'alabastro incrinata la cui tragica bellezza genera compassione prima che orrore.

L'estetica preraffaellita nel Frankenstein deltoriano si rivela, dunque, trasposizione temporale e artistica pienamente intenzionale. Il regista ha intuito che quel linguaggio visivo, con la sua ricchezza cromatica, la sua devozione per il dettaglio artigianale e la sua intensità melodrammatica, costituiva lo strumento più idoneo per tradurre in immagini la sua personale e appassionata visione del mito.

Analizzare l'opera attraverso questa lente non significa assolverne le ahimè, molte fragilità narrative, ma consente di apprezzarla su un piano diverso e più profondo: quello di un'opera d'arte che dialoga con un'altra forma espressiva, utilizzando la tela di un quadro vittoriano per dipingere le eterne interrogazioni sulla creazione, la solitudine e su chi sia, nell'epoca contemporanea, il vero mostro.


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