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Sergio Stivaletti: L'Architetto degli Incubi si Racconta. Intervista Esclusiva al Maestro dell'Horror Italiano

Intervista a Sergio Stivaletti, maestro degli effetti speciali. Scopri la sua filosofia, i retroscena di film cult e il futuro del cinema horror.

Incontro con l'artigiano che ha fuso scienza e arte per plasmare i mostri del nostro cinema. Un'eredità che il mondo ci invidia e una battaglia per il futuro dell'horror italiano.

[di Massimo Righetti]

Sergio Stivaletti

Definire Sergio Stivaletti un mero tecnico degli effetti speciali, per quanto geniale, significa misconoscerne la vera statura artistica. Egli è, a pieno titolo, un autore del grottesco, un artefice che ha materializzato gli incubi di intere generazioni, la cui opera si intreccia indissolubilmente con l'epopea e il tramonto del cinema di genere italiano. La sua singolarità risiede in una prodigiosa sintesi di discipline: l'arte visionaria di Gustave Doré e Hieronymus Bosch, la meraviglia cinematografica di Ray Harryhausen e, soprattutto, il rigore scientifico degli studi medici. Questa convergenza ha generato un approccio inquietantemente verosimile al fantastico, come testimonia la sua prima, memorabile collaborazione con Dario Argento per Phenomena.

Per quella pellicola, Stivaletti non concepì un mostro convenzionale, ma fondò il proprio design sulla rara patologia genetica della Sindrome di Patau, presentando al regista una visione dell'orrore scientificamente strutturata che lo conquistò immediatamente. Da quell'intuizione folgorante, Stivaletti è divenuto l'architetto di incubi per i più illustri registi del nostro cinema, da Lamberto Bava (Dèmoni) a Michele Soavi (Dellamorte Dellamore), guidando l'industria nella transizione dagli effetti prostetici e animatronici all'era digitale, di cui è stato precursore con La sindrome di Stendhal.

Oggi, Stivaletti non è soltanto un maestro del tangibile, ma anche regista, critico acuto e mentore delle nuove generazioni, continuando a difendere con fervore il potere narrativo del cinema di genere. Lo abbiamo incontrato per un'intervista esclusiva a Roma, durante il talk show Cinechiacchiere, condotto da Riccardo Ferrero e Antonella Ponziani presso il 68village nel quartiere romano Talenti. La cornice del Cinevillage Talenti, arena cinematografica di ANEC Lazio sempre attenta al cinema d'autore, si è rivelata scenario ideale per un viaggio nella sua filosofia artistica, tra aneddoti rivelatori, riflessioni sul futuro e un amore viscerale per il cinema.

Lei possiede una formazione peculiare, che coniuga studi di medicina a una passione per l'arte classica (Bosch) e il cinema di Ray Harryhausen. In che modo la sua conoscenza dell'anatomia e della genetica ha plasmato la sua filosofia del "mostruoso", permettendole di creare creature, come quella di Phenomena, che non sono meramente fantastiche ma anche disturbantemente verosimili?

«Le sue osservazioni colgono nel segno, mi ci ritrovo interamente. Riguardo ai riferimenti artistici, sono veritieri, anche se forse più che a Bosch — che pure ho evocato come ispirazione per la fantasia zoologica di alcune creature in Dèmoni — il mio vero faro è sempre stato Gustave Doré. Ricordo che da bambino sfogliavo un grande volume della Divina Commedia da lui illustrata, denso di immagini fantastiche e profondamente perturbanti. Del resto, provengo da una stirpe di artisti: mia nonna era pittrice e, prima di lei, un suo zio era un pittore di discreta fama. Quanto agli studi di medicina, in verità non hanno interferito granché, se non nel momento cruciale di Phenomena. Quel film giunse proprio mentre abbandonavo l'università. Avevo appena sostenuto l'esame di genetica, l'ultimo che avrei mai affrontato, e avevo scoperto l'esistenza della Sindrome di Patau. Dato che l'atmosfera voluta da Argento era profondamente scientifica, legata all'entomologia, non si poteva concepire il classico mostro gratuito. Mi sovvenne l'immagine inquietante di quella sindrome appena studiata, così preparai alcuni schizzi e quella patologia divenne il mostro del film. Una soluzione certamente originale e tutt'altro che scontata.»

Nella sua carriera ha collaborato con registi dallo stile assai diverso, da Argento a Bava, fino a Soavi, adattando la sua arte a visioni differenti. Come descriverebbe il suo ruolo in queste collaborazioni? Si è mai sentito più un co-autore del linguaggio visivo del film che un semplice esecutore tecnico, e come ha bilanciato la sua impronta artistica con le esigenze narrative di ogni regista?

«Ho avuto la fortuna, fin dal mio esordio, di adottare un approccio propositivo. Disegnavo la creatura, suggerivo soluzioni non solo per il trucco ma anche per gli effetti ottici. Questo mi ha consentito di essere considerato fin da subito più un collaboratore che avrebbe apportato la propria visione fantastica all'interno del film, che un mero tecnico. E questo accadde sin da Phenomena. Soavi, ad esempio, era aiuto regista su quel set e, memore di quell'esperienza, quando iniziò a dirigere i suoi film mi chiese una collaborazione attiva, prassi che mantiene tuttora quando lavoriamo a qualche progetto. Anche per Dellamorte Dellamore, mi consultò su come realizzare certe scene. Talvolta, quando un effetto speciale è particolarmente significativo, può comportare una modifica o un adattamento della storia stessa. Questa dinamica mi ha sempre accompagnato, sia con Bava che con Soavi. Non è arduo bilanciare le due istanze; anzi, direi che nella mia filmografia è piuttosto consueto essere coinvolto non solo come esecutore ma come parte integrante del processo creativo.»

Il suo passaggio alla regia appare un'estensione naturale del suo operato. In particolare, Rabbia Furiosa è uscito quasi contestualmente al Dogman di Garrone, offrendo una visione radicalmente diversa dello stesso fatto di cronaca. Mentre Garrone ha abbracciato un approccio neorealista, lei ha sposato pienamente il cinema di genere, descrivendo la storia come una "leggenda" urbana. Questa scelta rappresenta una dichiarazione d'intenti, una difesa del potere narrativo del cinema di genere in un panorama italiano che sembra averlo obliterato?

Riccardo De Filippis - Rabbia Furiosa
«Avendo avuto la ventura di collaborare con i grandi maestri, ho sempre avvertito l'esigenza di liberarmi dalle spire del genere, che inducono a pensare che i film siano costituiti esclusivamente da effetti speciali e situazioni spettacolari. Io credo che i film siano fatti di visionarietà e di molti altri elementi, ma se non sono sostenuti da una storia e da una recitazione ben diretta, naufragano. Un accumulo di effetti, per quanto straordinari, non coinvolge. Rabbia Furiosa nasce proprio da questa riflessione: volevo coniugare questi due aspetti. Non intendevo reinventare la storia del "Canaro", ma visualizzare quella componente che si narrava nei bar, la leggenda metropolitana secondo cui lui plagiava le sue vittime. Ho pensato di rendere visuale questa diceria, facendola diventare la chiave estetica del film. Questo è l'elemento su cui ho concentrato l'attenzione, mentre Garrone ovviamente lo ha sfumato considerevolmente.»

Lei è riconosciuto come maestro degli effetti pratici, ma è stato anche pioniere del digitale in Italia con La sindrome di Stendhal. Oggi critica spesso gli effetti in CGI che risultano "appiattiti". Qual è la sua filosofia sull'integrazione di queste due tecniche? Crede che l'avvenire dell'effetto speciale risieda in un approccio ibrido, dove l'artigianato fisico fornisce una base tangibile che il digitale da solo non può replicare?

«Per quanto io scorga l'evoluzione portata dall'intelligenza artificiale e da software sempre più performanti, ritengo che gli effetti digitali abbiano un difetto: sono sempre "eccessivamente progettati". La progettazione è il segreto del successo di un effetto, ma quando supera la performance si smarrisce quella spontaneità che è irraggiungibile se non attraverso la materia. Un oggetto fisico, riprodotto, reagisce come la materia che conosciamo. Una cosa digitale, invece, la facciamo reagire come vogliamo, come ce la immaginiamo. Per essere più esplicito: quando crei uno schizzo di sangue pratico, non puoi stabilire esattamente dove andrà a finire. Magari colpisce la macchina da presa in modo inaspettato, ed è proprio lì che risiede il realismo. È come un attore che cade in modo insolito e autentico. Ce lo insegna William Friedkin, quando raccontava che la madre di Regan ne L'Esorcista venne sbattuta contro un vero termosifone, ferendosi: la sua reazione fu assolutamente genuina. Ecco, gli effetti digitali presentano questa differenza rispetto a quelli pratici.»

Ha attraversato l'età aurea e il successivo declino del cinema di genere italiano, criticando la carenza di produttori coraggiosi e di un sistema distributivo che sostenga questi film. Al di là dei problemi economici e strutturali, cosa manca oggi, a livello creativo e di "ardire", per rivivere una nuova stagione del fantastico e dell'horror in Italia?

Sergio Stivaletti e Francesco Ciccone
«Manca il coraggio. Manca la convinzione. Negli anni d'oro, i grandi registi come Mario Bava, Argento, Margheriti e molti altri credevano in ciò che facevano perché il mercato rispondeva. Era un serpente che si mordeva la coda: il successo generava nuove opportunità. Oggi questa catena si è spezzata. Per ricomporla, occorrerebbe un vero produttore che abbia la pazienza e i capitali per investire, invece di rifugiarsi nel sicuro con i soliti attori e le consuete storie, dando per scontato che funzionerà. Bisognerebbe tornare al modo del tutto peculiare con cui noi italiani abbiamo interpretato questo genere, un approccio che ci riconoscono persino gli americani. Registi come Tarantino ne hanno fatto una chiave del loro successo. Questa ammirazione dovrebbe farci riflettere sul fatto che potremmo continuare a fare il nostro cinema, accordando fiducia e perseverando. Non si può sperare di far risorgere un genere con un singolo film. Serve un progetto di ampio respiro

Veniamo all'oggi. Quali sono i suoi progetti e le sue visioni per il presente e l'avvenire?

«Attualmente sto costruendo il progetto di un film ispirato alla saga di Dèmoni, un brand in cui credo ancora profondamente come possibile motore per una rinascita del genere. Quando vengo invitato alle convention all'estero, mi rendo conto di quanto certi film come Dèmoni, Phenomena o Dellamorte Dellamore abbiano segnato il genere in maniera indelebile. Naturalmente, la sfida più ardua è non ripetersi, non auto-copiarsi. Parallelamente, la mia attività in studio si evolve incessantemente, lavoriamo intensamente con le stampanti 3D e ho l'intenzione di rilanciare alla grande la mia scuola di effetti speciali, la Fantastic Forge. Per molto tempo è rimasta inattiva, ma ora voglio ampliarla, inserendo anche corsi di regia di genere. Mi rendo conto che anche registi esperti, se non hanno mai frequentato il genere, sono impreparati su certi aspetti. Il cinema di genere richiede una regia salda, musiche particolari, scenografie uniche. Insegnarlo adeguatamente, secondo me, forma un allievo in modo completo. Ai nuovi registi consiglio di non accontentarsi, di non imboccare la via più agevole. Se un film necessita di essere girato meglio, bisogna avere il coraggio di scartare ciò che non funziona

Ascoltare Sergio Stivaletti significa aprire uno squarcio su una stagione irripetibile del nostro cinema. Le sue parole non sono soltanto il racconto di una carriera straordinaria, ma un manifesto d'amore e, al contempo, un'analisi lucida di ciò che è stato e di ciò che potrebbe ancora essere. L'intervista ci restituisce il ritratto di un artista che ha dialogato con i più illustri maestri, contribuendo a definire un immaginario che ha fatto epoca. Un'eredità, quella del cinema di genere italiano, che paradossalmente risplende forse più all'estero che in patria, come Stivaletti stesso sottolinea. È un cinema celebrato e saccheggiato con reverenza da registi di fama mondiale, da Quentin Tarantino a molti altri che ne riconoscono l'impronta inconfondibile e l'audacia visionaria. La sua critica alla mancanza di produttori coraggiosi e la sua volontà di rilanciare una scuola di genere non costituiscono un lamento nostalgico, ma un'energica chiamata alle armi. È il tentativo di trasmettere un metodo, una passione e soprattutto quella convinzione che ha reso grande il nostro cinema fantastico. In un'industria che sembra aver smarrito la via della fantasia, Sergio Stivaletti non è un reduce, ma un maestro ancora pienamente operativo, un artefice che nella sua "Fucina Fantastica" non cessa di forgiare gli incubi e i sogni di cui il cinema italiano ha disperatamente bisogno.


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