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L'Occhio Onesto: Gianni Berengo Gardin e l'Eredità di uno Sguardo che ha Plasmato la Coscienza d'Italia

L''eredità di Gianni Berengo Gardin, l'artigiano della fotografia. Dalla sua etica della "vera fotografia" alla grammatica del bianco e nero

Addio al più grande fotografo italiano del dopoguerra. Un viaggio nella sua arte, dalla critica al digitale alla scelta del bianco e nero, attraverso i suoi reportage iconici come Morire di classe e il lavoro per Olivetti, che hanno definito la coscienza visiva di una nazione.

[di Angelo Bruno]

Gianni Berengo Gardin

Il 6 agosto 2025, con la scomparsa di Gianni Berengo Gardin, l'Italia non ha perso semplicemente un fotografo, ma il suo più grande testimone visivo del Novecento, un capitolo monumentale della storia visiva del Paese. Un narratore che, per oltre settant'anni, ha rifiutato con ostinazione l'etichetta di artista per abbracciare quella, più nobile e severa ai suoi occhi, di artigiano. 

L'essenza del suo lavoro e la chiave per comprenderne la portata straordinaria risiedono in una distinzione che ha sempre rivendicato con orgoglio intransigente: si definiva un cronista che utilizzava la macchina fotografica come uno scrittore adopera la penna. Questa non era falsa modestia, ma una dichiarazione filosofica che racchiude la sua intera visione del mondo: 

"Il mio lavoro non è artistico, ma sociale e civile. Non voglio interpretare, voglio raccontare".

Per lui, la funzione primaria della fotografia era la testimonianza, la documentazione, l'impegno civico. Questa posizione etica rappresenta il fondamento dell'intera sua opera, una bussola morale che ha orientato il suo rigore compositivo e alimentato la sua instancabile crociata per l'onestà dell'immagine.

La Grammatica di un Racconto Visivo

Lo stile di Gianni Berengo Gardin nasce da una sintesi magistrale tra il realismo incisivo della scuola documentaria americana della Farm Security Administration e il lirismo umanista dei maestri francesi, primo fra tutti Henri Cartier-Bresson. Da questa fusione culturale ha forgiato un linguaggio fotografico inconfondibile, perfettamente calibrato per decifrare e restituire le profonde contraddizioni dell'Italia del dopoguerra.

La sua grammatica visiva si fondava su scelte estetiche ed etiche precise e inderogabili. Prima fra tutte, la fedeltà assoluta al bianco e nero. "Il colore distrae", amava ripetere con la convinzione di chi ha fatto di questo principio un dogma. Per Berengo Gardin, l'assenza di colore non costituiva una mera scelta estetica, ma uno strumento di verità che costringe l'osservatore a concentrarsi sull'essenziale: la forma, l'architettura della luce, la complessità compositiva e, soprattutto, il contenuto narrativo dell'immagine. Era il suo modo di distillare la realtà fino alla sua quintessenza, trasformando la fotografia da semplice riproduzione in un'interpretazione più profonda e meditata del reale.

Prediligeva il grandangolo non per isolare il soggetto, ma al contrario per includerlo, per contestualizzare l'individuo nel suo tessuto sociale, architettonico e storico. Le sue inquadrature, apparentemente spontanee ma sorrette da una solida architettura interna di geometrie nascoste e corrispondenze formali, guidano l'occhio dell'osservatore e potenziano la narrazione visiva.

Questo approccio metodico e riflessivo era cristallizzato nel suo celebre motto: 

"Prima pensa e poi, eventualmente, scatta". 

Una lezione di pazienza e contemplazione in netta antitesi con l'impulso compulsivo dell'era digitale. Nel suo universo estetico, la forma era sempre subordinata a ciò che l'amico Ugo Mulas definiva una "foto buona": un'immagine che, anche se tecnicamente imperfetta, racconta qualcosa e possiede un contenuto morale e narrativo incontrovertibile.

Il Manifesto dell'Onestà Visiva

Forse il suo contributo più radicale e drammaticamente attuale riguarda l'etica dell'immagine. Berengo Gardin è stato un paladino intransigente della "Vera Fotografia", un critico implacabile della manipolazione digitale che considerava una minaccia mortale all'integrità del documento fotografico. La sua non era nostalgia reazionaria, ma una posizione etica di principio: da anni apponeva sul retro delle sue stampe un timbro di autenticazione che recitava "vera fotografia – non modificata o inventata al computer".

"Io Photoshop, per il reportage, lo abolirei per legge, perché falsa la comunicazione".

In un'epoca in cui il confine tra reale e costruito è sempre più labile, la sua fede granitica nel negativo come "vero DNA della fotografia" si ergeva a potente richiamo alla responsabilità intellettuale e alla deontologia professionale.

L'Italia allo Specchio: Storie di Fabbriche, Manicomi e Navigli

L'opera di Berengo Gardin costituisce un affresco monumentale dell'Italia del secondo Novecento, un'unica, estesa narrazione visiva che ne ha documentato con eguale intensità i sogni di modernità e i loro tragici fallimenti. La sua collaborazione venticinquennale con l'Olivetti (1965-1990) fu un profondo reportage sociologico che ritraeva l'utopia olivettiana di una fabbrica concepita come comunità integrata, concentrandosi sulle dinamiche umane e le relazioni lavorative piuttosto che sui prodotti.

Morire di Classe (1969)
Se esiste un'opera che incarna perfettamente la sua filosofia dell'impegno civile, questa è senza dubbio Morire di classe (1969), il libro-inchiesta realizzato con Carla Cerati e curato da Franco e Franca Basaglia. Le sue immagini, scattate nei manicomi di Gorizia, Colorno e Firenze, svelarono al Paese una realtà di abbandono e sofferenza sistematica, trasformandosi nel manifesto visivo del movimento antipsichiatrico e contribuendo in modo decisivo a creare il clima culturale che portò all'approvazione della rivoluzionaria Legge Basaglia.

Il suo rapporto con Venezia rappresenta invece un caso esemplare di come la sua visione si sia evoluta dall'intimismo lirico alla militanza civile. Dalla poesia umanista del celebre scatto Sul Vaporetto (1960) — un'immagine così perfetta da essere inclusa da Cartier-Bresson tra le cento fotografie più importanti di sempre — è progressivamente approdato alla denuncia serrata del reportage contro le Grandi Navi (2013-2015), un atto d'accusa senza compromessi contro quella che definiva una aggressione visuale al patrimonio storico e paesaggistico della città.

Il filo rosso che attraversa e unifica questi lavori apparentemente eterogenei è la sua poetica dell'alterità, efficacemente riassunta in una frase programmatica: 

"Io fotografo la gente che normalmente non viene fotografata".

Dal lavoro sulla comunità Rom di Disperata allegria alla documentazione sistematica della vita quotidiana di operai, contadini e intellettuali, il suo obiettivo si è sempre posato con coerenza metodica sugli ultimi, sui marginalizzati, sui dimenticati dalla storia ufficiale.

L'Eredità di un Testimone

La statura storica di Gianni Berengo Gardin è sancita tanto dal giudizio unanime della critica — lo storico della fotografia Italo Zannier lo ha definito "il fotografo più ragguardevole del dopoguerra" — quanto dall'ammirazione incondizionata dei suoi pari. Henri Cartier-Bresson non solo lo incluse nella sua mostra personale "Les choix d'Henri Cartier-Bresson" (2003), ma arrivò a dedicargli un volume "con affetto e ammirazione", riconoscimento che da solo basterebbe a certificarne la grandezza internazionale.

Sul Vaporetto (1960)

La sua eredità non risiede esclusivamente in singole immagini iconiche, ma nella monumentale produzione libraria (oltre 260 fotolibri), che ha sempre considerato la forma espressiva più congeniale per sviluppare narrazioni complesse e articolate nel tempo, oltre due milioni di negativi che costituiscono un patrimonio visivo di valore incommensurabile, una memoria storica stratificata della nazione. È un monumento di carta e sali d'argento che continuerà a raccontare l'Italia molto oltre la nostra epoca.

In un'era digitale saturata di immagini effimere, manipolate e consumate istantaneamente, il suo occhio onesto si erge come un faro di integrità intellettuale, un richiamo potente a concepire la fotografia come atto di riflessione, di responsabilità civile e di onestà morale. La sua lezione metodologica e etica rappresenta un antidoto necessario alla superficialità del nostro tempo, una bussola per orientarsi nel caos dell'overload visivo contemporaneo.

L'artigiano se n'è andato, ma il suo sguardo permane, intatto nella sua forza rivelatrice, per continuare a insegnarci l'arte difficile e necessaria del vedere.

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