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La Guerra di Trump all'Arte: La Conquista del Kennedy Center

L'assalto di Donald Trump al Kennedy Center: come la politica sta riscrivendo l'arte, tra nomine 'anti-woke' e il boicottaggio degli artisti

Dalle onorificenze "anti-woke" al boicottaggio degli artisti, cronaca di come il tempio bipartisan della cultura USA è diventato un campo di battaglia ideologico.

[di Mina Jane]

Kennedy Center - Washington D.C.

Nella Hall of Nations del Kennedy Center, l'annuncio dei riconoscimenti artistici del 2025 trascende la dimensione cerimoniale per configurarsi quale atto di conquista culturale. Donald Trump, insediatosi quale Presidente del consiglio di amministrazione, dischiude i nomi dei premiati con la solennità di un editto: Sylvester Stallone ("un mio amico"), i KISS, l'icona country George Strait, Gloria Gaynor e Michael Crawford.

La selezione non è frutto del caso, bensì manifesto programmatico che celebra, secondo l'acuta definizione del TIME, un'"era di machismo, sfarzo ed eccessi". A dissipare ogni ambiguità è lo stesso Trump, che con disarmante candore confessa il proprio coinvolgimento "per circa il novantotto percento" nella scelta—un'ingerenza senza precedenti nella storia dell'istituzione. Segue la confessione ideologica, lapidaria: "Ne ho respinti parecchi. Erano troppo woke".

Il rifiuto di Tom Cruise di accettare l'onorificenza per "conflitti di programmazione" introduce una nota di significativo contrappunto. Ma il messaggio trumpiano risuona cristallino: il Kennedy Center non costituisce più un santuario da venerare, bensì una piattaforma mediatica da sottomettere. La sua insistenza nel presentare la serata, i post sui social dove scherza su un possibile TRUMP/KENNEDY CENTER e l'ostentazione degli indici di ascolto ne sono conferma eloquente. La celebrazione nazionale si è metamorfosata in comizio.

Cronaca di una Conquista

L'appropriazione del Kennedy Center si è articolata quale operazione chirurgica, orchestrata attraverso tre fasi decisive.

L'Epurazione: Trump ha destituito diciotto membri del consiglio, incluso il presidente David Rubenstein, sgomberando il campo per chi condivide la sua "Visione per un'Età dell'Oro nelle Arti".

L'Insediamento: Al loro posto ha collocato alleati politici e mediatici—dalla capo di gabinetto Susie Wiles alle anchorwoman di Fox News Laura Ingraham e Maria Bartiromo—assicurandosi un allineamento granitico.

L'Auto-incoronazione: Il nuovo consiglio lo ha eletto proprio presidente, conferendogli de facto il controllo della più prestigiosa istituzione culturale pubblica della nazione.

Consolidato il dominio, la trasformazione è divenuta sistematica. Trump ha dichiarato l'intenzione di controllare i contenuti artistici ("ci assicureremo che non siano woke") introducendo modifiche che travalicano il simbolico: dall'annuncio di voler rinnovare completamente l'edificio alla sostituzione degli storici artigiani delle medaglie con il colosso Tiffany & Co., fino all'installazione di imponenti ritratti di sé e della consorte in spazi un tempo ornati dal solo busto di JFK.

Questa manovra infrange decenni di tradizione bipartisan. Il Centro—nato dall'iniziativa del repubblicano Eisenhower e dedicato al democratico Kennedy—aveva sempre accolto i presidenti quali ospiti d'onore, mai quali padroni di casa.

La Risposta: L'Esodo degli Artisti

La reazione della comunità artistica si è tradotta in un boicottaggio immediato e compatto. L'elenco degli assenti illustri si allunga: il musical Hamilton, la produttrice Shonda Rhimes (dimessasi dal consiglio), la scrittrice Louise Penny, insieme ad artiste come Issa Rae e la musicista Rhiannon GiddensIl boicottaggio trascende il gesto morale per configurarsi quale strategia di delegittimazione. Negandosi alle scene, gli artisti sottraggono consenso al nuovo corso. 

Le conseguenze dell'agenda "anti-woke" si sono palesate nell'immediato, con la cancellazione di spettacoli LGBTQ+ come quelli del Gay Men's Chorus of Washington—ufficialmente per ragioni di bilancio. Il boicottaggio trasforma così il Kennedy Center da palcoscenico unificante in simbolo di una nazione culturalmente lacerata, costringendo ogni artista a una scelta di campo.

"L'obiettivo non è solo controllare chi si esibisce sul palco, ma controllare le percezioni delle persone sedute tra il pubblico. E questo è molto più inquietante." — Robin Givhan, The Washington Post

Una Guerra su Fronti Molteplici

L'assalto al Kennedy Center rappresenta la battaglia più visibile di una guerra culturale sistematica che l'amministrazione Trump conduce secondo una precisa strategia di "prosciugamento e conquista". Mentre enti federali indipendenti quali il National Endowment for the Arts (NEA) e la Corporation for Public Broadcasting (NPR, PBS) subiscono tagli miliardari che dissanguano teatri e istituzioni locali, le piattaforme sotto controllo diretto dell'amministrazione ricevono stanziamenti senza precedenti. Al Kennedy Center trumpiano vengono così destinati 257 milioni di dollari—sei volte l'allocazione consueta—mentre simultaneamente si impone allo Smithsonian una linea editoriale più patriottica, censurando narrazioni complesse su temi quali la storia razziale. Identica logica si applica nel colpire ricerca scientifica, università e scuole pubbliche non allineate. Non si tratta dunque di mera politica, bensì di un attacco sistematico alle istituzioni che, in democrazia, detengono il mandato di creare e diffondere conoscenza. La guerra alla cultura è, nella sua essenza, una guerra per l'autorità di definire la realtà americana.

Quale Futuro per la Cultura d'America?

Lo scontro dischiude due visioni inconciliabili. Per i sostenitori di Trump, si configura quale necessaria ricostituzione volta a sottrarre la cultura a un'élite "woke" per restituirla all'America autentica. Per i detrattori, rappresenta un passo verso il controllo autoritario dell'espressione, finalizzato al silenziamento del dissenso. La vicenda del Kennedy Center lascia irrisolti interrogativi cruciali. Può un'istituzione nazionale sopravvivere senza consenso bipartisan? Il confine tra influenza politica e libertà artistica appare cancellato.

La tempesta che si è abbattuta sul Kennedy Center potrebbe non configurarsi quale episodio transitorio, ma quale presagio di un clima inedito—dove ogni palcoscenico diviene fronte di battaglia e ogni opera si trasforma in arma.

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