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The Studio: La Serie TV che Insegna di Nuovo il Cinema

Recensione di "The Studio". Scopri perché la serie con Seth Rogen è un capolavoro di regia, un omaggio al cinema e la satira definitiva su Hollywood.

Perché The Studio non è solo televisione, ma una lezione di cinema che Hollywood dovrebbe urgentemente imparare. Tra piani sequenza, satira spietata e un amore incondizionato per la settima arte, la serie di Rogen e Goldberg è il trattato definitivo sull'industria in crisi.

[di Massimo Righetti] 

Il nostro magazine parla di cinema. È una scelta, una dichiarazione d'intenti che non ammette compromessi. Eppure, oggi facciamo un'eccezione consapevole, perché The Studio, la serie Apple TV+ firmata da Seth Rogen ed Evan Goldberg, pur essendo televisione nella sua forma distributiva, è cinema nella sua essenza più pura e audace. È un'opera che trascende il piccolo schermo per diventare un inaspettato ma sincero omaggio all'arte della narrazione per immagini, un trattato complesso sull'industria cinematografica che riesce a essere, simultaneamente, una critica spietata e una struggente lettera d'amore.

L'Estetica del Caos: Quando la Forma Diventa Sostanza

Il cuore pulsante dell'opera, ciò che la trasfigura da brillante satira in capolavoro formale, risiede nella sua grammatica visiva. La scelta di Rogen e Goldberg, registi di tutti gli episodi, di affidare gran parte della narrazione a lunghi e complessi piani sequenza non rappresenta un virtuosismo autoreferenziale, ma uno strumento tematico di precisione chirurgica. Con una sola camera e un unico obiettivo grandangolare da 21mm, il direttore della fotografia Adam Newport-Berra orchestra una coreografia del caos che trova pochi precedenti nella storia del mezzo televisivo.

La camera, frenetica e incessante, pedina i personaggi con l'ossessività di un segugio, si insinua nelle riunioni come un testimone indiscreto, li segue lungo i corridoi asettici dei Continental Studios con la determinazione di un predatore. L'effetto è duplice e di una potenza espressiva straordinaria: da un lato, immerge lo spettatore nello stato di panico e ansia perenne che definisce la vita dei protagonisti; dall'altro, l'assenza di tagli ci costringe a vivere ogni disastro e ogni gag imbarazzante in tempo reale, rendendoci testimoni impotenti, intrappolati nella stanza del potere hollywoodiano.

Questa fusione organica tra forma e contenuto raggiunge il suo apice nell'episodio 2, The Oner, un'analisi meta-cinematografica di rara intelligenza in cui il tentativo di girare un piano sequenza su un set viene sistematicamente mandato a monte, incarnando perfettamente la filosofia autoriale della serie. La difficoltà tecnica di realizzare un "oner" diventa così una potente metafora della difficoltà di "fare un buon film". E per raccontarlo, l'intero episodio è girato in piano sequenza, chiudendo il cerchio della metafora con un'eleganza formale che ricorda il miglior Altman.

La Partitura dell'Ansia: Il Ritmo come Racconto

Olivia Wilde, Seth Rogen

The Studio
non si limita a raccontare il caos della produzione; lo incarna nel suo stesso DNA stilistico, e a sostenere questa estetica del panico interviene magistralmente la colonna sonora. La partitura, affidata non a caso ad Antonio Sánchez, il genio percussivo dietro Birdman, è un tappeto ritmico dominato dalla batteria che funge da battito cardiaco nevrotico della serie. Un ritmo incessante che amplifica la tensione e si sposa alla perfezione con il montaggio - un montaggio che avviene sul set, dettato dalla coreografia degli attori e della camera più che dai tagli in post-produzione.

Questa scelta compositiva trasforma ogni episodio in una sinfonia dell'ansia, dove il tempo narrativo coincide con il tempo reale dell'esperienza, abolendo quella distanza di sicurezza che il montaggio tradizionale garantisce allo spettatore. È cinema puro, mascherato da televisione.

L'Arte della Citazione: Quando l'Omaggio Diventa Critica

Ogni episodio si configura come un'opera autonoma, un omaggio colto a un diverso genere o aspetto del fare cinema. La serie esplora con acume chirurgico la terrificante arte di dare una "nota" negativa a un regista intoccabile come Ron Howard, trasforma la ricerca di una pellicola smarrita in un thriller neo-noir in stile Chinatown, e mette in discussione il valore ontologico stesso del cinema quando un dirigente deve difendere il proprio lavoro di fronte a un oncologo pediatrico.

Questi omaggi, ricchi di citazioni erudite e impreziositi da cameo geniali e funzionali di autori come Martin Scorsese, Sarah Polley e Olivia Wilde, testimoniano la profonda cultura cinefila degli autori, ma soprattutto dimostrano come la conoscenza del linguaggio cinematografico possa diventare strumento di analisi sociologica.

Il Conflitto Centrale: Arte vs. Commercio

Seth Rogen, Ron Howard
Al centro della narrazione pulsa il conflitto esistenziale di Matt Remick (Seth Rogen), un dirigente appassionato e idealista costretto a bilanciare l'integrità artistica con le spietate esigenze commerciali di un'industria ossessionata dal profitto. La sua prima, umiliante missione – sviluppare un film sulla mascotte Kool-Aid Man per replicare il successo di Barbie – incapsula con perfetta sintesi l'assurdità del sistema. Il risultato è una lettera d'amore autolesionista a Hollywood, una satira che morde la mano che la nutre con intelligenza critica e un affetto sincero.

Il Ritratto di un'Industria

Possiamo sostenere senza timore di essere smentiti che The Studio rappresenti la più accurata rappresentazione di Hollywood dai tempi di The Player di Robert Altman, un ritratto complesso, contraddittorio e necessario di un'industria al collasso, schiacciata dalla logica degli algoritmi ma ancora capace di una magia inspiegabile. Non offre facili soluzioni né si concede il lusso del moralismo, ma porge a Hollywood uno specchio impietoso, dove sotto la superficie della nevrosi si intravede ancora una fede incrollabile nel potere delle storie.



Ike Barinholtz, Seth Rogen e Martin Scorsese

Il Paradosso del Medium

È un'opera che, paradossalmente, usa il linguaggio e la distribuzione della televisione per ricordarci la grandezza del cinema. Ed è proprio questo paradosso che genera il cortocircuito mentale finale: alla fine della visione, consumata tutta d'un fiato con l'avidità di chi ritrova un piacere perduto, ci scrolliamo di dosso l'estasi contemplativa e parte il dubbio quasi amletico che ci perseguita: "Ma il mondo del cinema, per dimostrare la propria grandezza, ha bisogno ormai della televisione?"

Una domanda che non cerca risposte facili, ma che svela l'inquietudine di un'epoca in cui i confini tra i medium si dissolvono e la qualità artistica può emergere da qualsiasi schermo. The Studio non è solo una serie televisiva eccezionale: è un manifesto cinematografico che usa il "nemico" per celebrare la propria arte. E forse, in questo gesto apparentemente contraddittorio, risiede la sua più profonda verità.

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