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Lupin non abita più qui: Sette minuti, una sega circolare e l'arte di scomparire.

Un furto al Louvre in 7 minuti. Travestiti da operai, i ladri riscrivono la trama di Lupin. Cronaca di un colpo tra finzione Netflix e brutale realtà.

Sette minuti, un montacarichi e dei gilet gialli. Anatomia di un'incursione che sembra scritta da Netflix ma che odora di smerigliatrice e asfalto bagnato.

[di Massimo Righetti]

Sentitela, la pioggerellina di Parigi. Domenica mattina, le nove e trenta. È una musica che conosciamo, un sottofondo per croissant e passeggiate lente lungo la Senna. Ma quel giorno, il 19 ottobre, quella musica si è rotta. Sostituitela con un altro suono. Il ronzio metallico, quasi un lamento, di una sega circolare che morde il vetro. È un suono industriale, operaio. Un suono che non dovrebbe stare lì, su un balcone del Louvre. Ma ci sta benissimo, a pensarci bene.

Eccoli. Quattro uomini. Non hanno maschere da teatro, non hanno gadget da spie. Hanno dei gilet gialli, di quelli che si usano per non farsi investire, per segnalare la propria esistenza. E loro, con quei gilet, sono diventati invisibili. È un capolavoro, capite? Usare il simbolo della visibilità per scomparire in piena vista, mimetizzati in un cantiere che è la scenografia perfetta, un pezzo di città che lavora, che suda, che non fa caso a nulla. Genio puro. O forse solo fortuna sfacciata.

La Galleria Apollo - Louvre
Sono arrivati su due scooteroni, dei T-Max, roba da smanettoni, da gente che sa come divorare il traffico parigino senza farsi venire un esaurimento nervoso. E con un furgone, un umile furgone con un montacarichi. Niente elicotteri, niente funi calate dal tetto come in Mission: Impossible. Un montacarichi. L'attrezzo più onesto e banale del mondo, quello che vedete ogni giorno e che vi fa pensare "ecco, un altro trasloco", trasformato in un cavallo di Troia che sale, lento e inesorabile, fino al primo piano dell'Ala Denon. Fino al cuore pulsante della grandeur francese: la Galleria di Apollo. Dove, francamente, nessuno si aspetta di vedere arrivare un montacarichi.

Dentro, non c'è tempo per ammirare i soffitti dorati, peccato. L'aria è densa di un'urgenza quasi animale. Vanno a colpo sicuro, sanno dove mettere le mani. Due teche. Vetri di sicurezza che diventano fragili come zucchero sotto i colpi di una smerigliatrice. È un gesto brutale, fisico, che fa un casino del diavolo. Non è l'eleganza di Assane Diop, il Lupin di Netflix che danza nel museo come un fantasma in smoking. Questa è la realtà che morde, che fa rumore, che lascia segatura e impronte. È la polvere di vetro, il gesto rapido e sgraziato di arraffare diademi, collane, orecchini. I gioielli di Napoleone, dell'imperatrice Eugenia. Pezzi di storia che in sette minuti diventano refurtiva. Come dire: da museo a bisaccia.

La corona dell'imperatrice Eugenia
Sette minuti. Il tempo di una canzone alla radio, di un caffè al volo, di una telefonata con vostra madre. Loro, in quel tempo, hanno umiliato il museo più famoso del mondo. E poi, la fuga. Ma anche qui, c'è un dettaglio che odora di vita vera, non di sceneggiatura ben rifinita. Nella fretta, nella scarica di adrenalina da rapina perfetta, qualcosa cade. La corona dell'imperatrice Eugenia, un capolavoro di diamanti e smeraldi, scivola via, si danneggia, viene abbandonata come un pensiero di troppo, come le chiavi che ti cadono sempre quando sei in ritardo. È l'imperfezione che rende tutto così terribilmente umano. Un errore, un inciampo nel capolavoro criminale. Pure loro, in fondo, sono dilettanti.

E mentre fuggono sui loro scooter, inghiottiti dall'autostrada A6 come se niente fosse, a Parigi resta lo stupore. Il sindaco, Ariel Weil, lo dice quasi con un sospiro, con quella faccia che immaginate: "Sembra di essere in Arsène Lupin. Si fa fatica a immaginare che possa essere così facile svaligiare il Louvre". Ed è qui, in questa frase così ingenua e vera, che tutto si tiene. La realtà ha superato la finzione, l'ha copiata, forse l'ha anche presa un po' in giro. Ha preso in prestito la stessa sala, la Galleria di Apollo, lo stesso palcoscenico del colpo di Assane Diop. Ha usato il travestimento, l'arte di essere altro per confondere il mondo. Ha fatto tutto come si deve.

Ma la somiglianza è una trappola seducente, roba da critici cinematografici. Il Lupin di Netflix è una carezza, un gioco di prestigio, un ladro che ruba per vendetta e per un'idea di giustizia contorta e romantica, con la musica giusta e le inquadrature perfette. Questi, i ladri veri, quelli con la smerigliatrice in mano e il fiatone addosso, hanno agito con la fredda logica del profitto. I loro attrezzi non erano l'ingegno e l'astuzia, ma smerigliatrici e seghe circolari che compri al Brico. E il destino di quei gioielli, probabilmente, non sarà la teca di un collezionista eccentrico con le bretelle di seta. Sarà il calore di un crogiolo che fonde l'oro, la mano di un tagliatore che snatura le gemme per renderle irriconoscibili, vendibili, convertibili in contanti.

È questa la distanza, abissale, tra il racconto e la vita. Il racconto ci regala un ladro gentiluomo. La vita ci lascia con il rumore assordante di un pezzo di storia che viene cancellato, trasformato in lingotti anonimi. E con l'immagine di quattro uomini in gilet giallo che, per sette minuti, hanno spento le luci della città più bella del mondo. Che poi, a pensarci, non è neanche vero: le luci sono ancora lì. È solo che adesso brillano un po' meno.

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