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La gabbia del benessere: Good Boy e il prezzo della cura nel cinema di Jan Komasa

L'ambiguità di Good Boy di Jan Komasa. Il film esplora il dilemma tra libertà e sicurezza, una cura che diventa prigione.

Il nuovo thriller del regista di Corpus Christi, presentato alla Festa del Cinema di Roma, interroga con ferocia il nostro rapporto con l'autonomia: quando la sicurezza si fa prigione, e la prigionia diventa paradossalmente l'unica forma di scopo?

[di Alex M. Salgado]

Anson Boon in Good Boy

Good Boy di Jan Komasa non si accontenta di narrare: scaglia un'accusa filosofica contro lo spettatore, un interrogativo tanto brutale quanto la prigionia che mette in scena. Presentato alla Festa delCinema di Roma, questo thriller psicologico si insinua sotto la pelle, imponendoci di sostare su uno dei paradossi capitali della condizione contemporanea: preferiremmo l'autonomia nel deserto dell'isolamento o la rinuncia alla libertà in cambio di un abbraccio che cura e controlla?

Il regista polacco, già celebrato per Corpus Christi, orchestra una fiaba nera attorno a un impulso ancestrale e inquietante: il bisogno di "raddrizzare ciò che appare storto, di normalizzare l'aberrazione". La storia di Tommy, giovane teppista nichilista rapito e sottoposto a una rieducazione coatta da una coppia borghese, si trasforma nel teatro di un'indagine spietata sui meccanismi che governano il patto tra individuo e collettività. La libertà del protagonista, nei primi fotogrammi, è totale ma vuota: si manifesta come deriva autodistruttiva, come assenza di senso. La sua prigionia, per quanto brutale, gli restituisce invece una direzione: resistere, piegarsi, diventare il "bravo ragazzo" del titolo. In questo cortocircuito morale pulsa il nucleo dell'opera: la cura che diventa carcere, l'affetto che si cristallizza in dominio.

Good Boy
Komasa compie un'operazione di chirurgica lucidità: traduce le metaforiche catene dei legami familiari e delle convenzioni sociali in ceppi tangibili, in prigioni domestiche. La famiglia-carceriera, dominata da uno Stephen Graham magistrale, incarna un paternalismo autoritario che ammalia promettendo ordine e protezione. In questa allegoria risuona, inevitabile, l'eco delle nostre democrazie occidentali: società terrorizzate dal disordine, sedotte da soluzioni illiberali mascherate da buon senso. Il film insinua un sospetto agghiacciante: di fronte alla vertigine di una libertà senza approdo, l'essere umano può arrivare a desiderare la gabbia, purché rivestita di velluto e ornata di buone intenzioni. Gli aguzzini di Tommy scivolano gradualmente verso la figura di affetti quasi rassicuranti, e lo spettatore si scopre complice, costretto a interrogare i propri confini etici, a misurare quanto della propria autonomia sia disposto a cedere in cambio di appartenenza e conforto.

GUARDA IL TRAILER: GOOD BOY - Official

Il cinema si fa qui strumento di un messaggio etico deliberatamente ambiguo e sfuggente, un territorio borderline dove le certezze vacillano. Komasa rifiuta il giudizio; preferisce esporre la contraddizione, mostrare come l'impulso a redimere l'altro possa trasfigurarsi nella più raffinata delle violenze. Il film abita questo spazio ambiguo con consapevolezza, lasciando che sia lo spettatore a decidere chi incarni la vittima e chi il carnefice — se una distinzione è ancora possibile.

Proprio per la profondità di queste riflessioni, l'architettura narrativa tradisce in parte le proprie ambizioni. Dopo aver intessuto con rigore millimetrico una tensione psicologica quasi insostenibile, il film subisce un'accelerazione nel finale che ne compromette l'equilibrio. Questa urgenza conclusiva, sacrifica tracce narrative e lascia un senso di incompiutezza, quasi come se la complessità delle domande sollevate non potesse essere contenuta in una chiusura convenzionale. Un epilogo che sembra quasi estraneo e immeritato alla complessità dell'edificio che lo precede, una fragilità strutturale che tuttavia non intacca la forza perturbante di un'opera destinata a tormentarci ben oltre la dissolvenza finale.

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