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Bonifacio Angius e Damiano D'Innocenzo: Il Cinema come promessa mantenuta e tragedia superata

Report dell'incontro tra Bonifacio Angius e Damiano D'Innocenzo per CONFITEOR. Un dialogo su cinema, sofferenza, artigianato e libertà creativa.

Il racconto dell'incontro all'Azzurro Scipioni, dove i due registi hanno svelato l'anima di CONFITEOR in un dialogo intimo su artigianato, dolore e libertà creativa.

[di Alex M. Salgado]

Damiano D'Innocenzo e Bonifacio Angius

Esistono serate che oltrepassano i confini della mera presentazione cinematografica per elevarsi a manifesto, ad atto di fede nella settima arte. L'incontro di ieri, venerdì 17 ottobre, tra Bonifacio Angius e Damiano D'Innocenzo all'Azzurro Scipioni di Roma, in occasione di CONFITEOR, è stato precisamente questo: un dialogo tra due autori che, pur articolando linguaggi distinti, condividono l'identica urgenza viscerale di raccontare la verità, anche quando essa lacera. Una conversazione tramutata in lezione non accademica sul significato profondo del fare cinema nell'Italia contemporanea, un amalgama di artigianato, incantesimo e, soprattutto, necessità ineludibile.

Confiteor - Scena del film
A inaugurare il confronto è stato Damiano D'Innocenzo, con l'ammirazione disarmata di chi riconosce un compagno di viaggio. Ha definito Angius "uno a cui rubare le cose, a cui rubare i movimenti, la verità, i ricordi". Per D'Innocenzo, il cinema di Angius ha rappresentato da sempre un punto cardinale, ma CONFITEOR incarna qualcosa di inatteso e dirompente: il suo film "più bello". Il regista di Favolacce ha poi offerto una delle riflessioni più cristalline della serata, descrivendo il mestiere registico come un percorso che prende le mosse dalla concretezza più adamantina. 

"Prima di essere artisti si è artigianipoi dopo che si è diventati dei bravi artigiani si può iniziare a pensare di essere anche forse artisti, ma questo è secondario. Il cinema è un'arte che esige una precisione quasi orafa per generare illusione. Il cinema è magia e chi fa cinema è un mago illusionista, è veramente uno che quando lo fa bene non è un c*******". 

Da qui la conclusione: "il buon cinema, quello che fai te, è una promessa mantenuta".

Bonifacio Angius ha raccolto questa visione, disvelando il motore primo che lo ha condotto a completare un'opera così lacerata dal dolore. CONFITEOR non è germogliato da un capriccio estetico, ma da una sfida esistenziale. "Non è stata una passeggiata," ha confessato, spiegando come portare a termine il film costituisse un modo per non consentire alle avversità dell'esistenza di travolgerlo. Il progetto si è trasformato in àncora di salvezza, in questione d'onore: "Non portarlo a termine sarebbe stata una tragedia personale veramente difficile da superare". Angius ha poi approfondito la natura quasi paradossale dell'opera, così radicalmente autobiografica da risultare "inrubabile", eppure universale nella sua portata. "Siccome io non credo di essere una persona così speciale," ha ammesso con pudore, "parlando di me alla fine parlo di chiunque". Ha quindi aggiunto una riflessione di potenza folgorante sul punto di non ritorno che ogni regista affronta: 

"Per chi fa un film, un film non è mai solo un film, si porta appresso talmente tante cose che non puoi essere così vigliacco da lasciare a metà".

La libertà che D'Innocenzo ha percepito sullo schermo, Angius l'ha ricondotta proprio a quella dimensione artigianale, quasi estemporanea, dell'atto creativo. Una libertà che germoglia dall'assenza di strutture produttive costrittive, che consente di girare una scena decisiva come il finale "al posto di fare una domenica un picnic", trasfigurando un frammento di vita in gesto creativo allo stato puro. È la conferma che il cinema si configura come organismo vivente, che porta impressi la vita, le cicatrici e i sacrifici di chi lo plasma.

La conversazione si è chiusa con una riflessione di D'Innocenzo sulla bellezza della stima reciproca: "i colleghi che ami ti aiutano a diventare più bravo e  a correre assieme". Ieri sera, prima del film, si è avuta la sensazione non di assistere a un'intervista convenzionale, ma di penetrare nell'officina segreta di due grandi artigiani, due illusionisti che, attraverso il dolore e la fatica, tengono fede alla promessa più grande del cinema: trasformare una tragedia personale in esperienza universale.


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