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Retratos Fantasmas: il cinema come memoria di un Brasile che scompare

Recensione di Retratos Fantasmas: un viaggio nella memoria di Recife e del suo cinema secondo Kleber Mendonça Filho. Un film potente e universale.

Nel suo saggio autobiografico e politico, Kleber Mendonça Filho parte dalla sua casa di Recife per raccontare la trasformazione dei luoghi, la fine delle grandi sale cinematografiche e la persistenza dei ricordi.

[di Betty Sellers]

Retratos Fantasmas di Kleber Mendonça Filho

Proiettato come evento speciale domenica 14 settembre nella sala Michel Piccoli, nell’ultima giornata del Festival di Film di Villa Medici, Retratos Fantasmas di Kleber Mendonça Filho – distribuito da Minerva Pictures – è un film saggio, autobiografico e politico che interroga il concetto stesso di memoria, mettendo in relazione i luoghi dell’infanzia del regista, il tessuto urbano di Recife e le trasformazioni culturali e sociali del Brasile contemporaneo.

Il film è articolato in tre parti distinte ma profondamente intrecciate. Si apre nell’appartamento di famiglia, situato nel quartiere di Setúbal, dove la madre del regista aveva allestito una piccola sala cinematografica domestica e dove Mendonça Filho ha iniziato a filmare – prima con mezzi di fortuna, poi con crescente consapevolezza – tutto ciò che lo circondava. Lì, tra mura che cambiano nel tempo e volti che invecchiano o scompaiono, si definisce lo sguardo del futuro cineasta. Lo spazio domestico si fa officina creativa, set sperimentale, luogo di raccolta delle prime esperienze visive e affettive. Questo sguardo, al tempo stesso tenero e analitico, si estende poi al vicinato: alle dinamiche relazionali tra famiglie, animali, generazioni e classi sociali, restituendo il ritratto vivo e sensibile di un contesto in mutazione.

Retratos Fantasmas di Kleber Mendonça Filho
Dall’intimo si passa poi al collettivo. Il cuore del film si sposta nel centro storico di Recife, dove il regista ripercorre la storia delle grandi sale cinematografiche oggi scomparse o trasformate. Non c’è solo nostalgia per un’epoca perduta, ma una riflessione più ampia sulla funzione sociale e comunitaria del cinema. Mendonça Filho racconta – con il supporto di materiali d’archivio, fotografie, filmati privati e una narrazione asciutta e coinvolgente – di quando i cinema accoglievano centinaia di spettatori per proiezione, di un pubblico disciplinato, silenzioso, attento, che partecipava alla visione con una sorta di rispetto quasi liturgico. All’uscita, i commenti erano pacati, parte di un rituale condiviso che faceva del cinema una forma di coesione culturale. Al centro di questo universo perduto, i mestieri che lo animavano: non solo i proiezionisti, ma anche gli addetti alle biglietterie, coloro che cambiavano a mano i titoli sui cartelloni esterni, spesso arrampicandosi senza protezioni su scale e parapetti, guidati più dalla passione che da una logica industriale. Figure oggi scomparse, ma che il film riesce a riportare in vita con rispetto e lucidità.


La terza parte affronta una delle trasformazioni più controverse della realtà brasiliana recente: la riconversione di molte vecchie sale cinematografiche in chiese evangeliche. Una mutazione architettonica e culturale che Mendonça Filho osserva con spirito critico ma senza sarcasmo, interrogando il significato profondo di questo passaggio. Dove un tempo si celebrava il rito laico della visione collettiva, ora si celebra un’altra forma di adesione, questa volta spirituale e ideologicamente orientata. Il regista sottolinea però che anche il celebre Cinema São Luiz nacque da una vecchia chiesa demolita dopo la guerra: la storia, insomma, è fatta di cicli e riconversioni, ma resta la domanda su cosa si perde – in termini di linguaggio, esperienza estetica e confronto – nel passaggio da uno spazio condiviso e narrativo a uno dogmatico e verticistico.

Il film si chiude senza effetti o forzature drammatiche, ma con un sentimento profondo di persistenza: non tanto dei fantasmi, quanto delle tracce lasciate dalle persone, dai luoghi, dai gesti. Le fotografie sbiadite, il suono lontano di un cane che non c’è più, i volti incisi nella pellicola: tutto si fa eco, memoria viva, risonanza del presente. La potenza di Retratos Fantasmas sta proprio nel non voler distinguere rigidamente tra ciò che è reale e ciò che è evocato. La memoria è una forma di esperienza attiva, un archivio affettivo e visivo che ci accompagna e ci definisce.

La narrazione del regista è lucida, a tratti autoironica, sempre consapevole del rischio della malinconia. Ma Retratos Fantasmas non è un film nostalgico: è una riflessione critica sul tempo, sulla città e sul cinema stesso, come dispositivo capace di tenere insieme storie individuali e movimenti collettivi. L’uso del found footage – personale e pubblico – è calibrato con intelligenza e sensibilità, e l’equilibrio tra il racconto intimo e la dimensione storica e urbana è uno dei punti di forza del film. Mendonça Filho, forte della sua formazione da critico e curatore, sa esattamente dove puntare lo sguardo: sa cosa mostrare e cosa lasciare fuori campo, in un gioco continuo tra rivelazione e discrezione.
In definitiva, Retratos Fantasmas è un’opera densa e stratificata, che parla della trasformazione dei luoghi ma anche della permanenza dei legami. Un film che, pur radicato profondamente nella realtà brasiliana, riesce a toccare corde universali: quelle del rapporto tra individuo e spazio, tra passato e presente, tra cinema e vita.

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