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Specchi Infranti e Voti di Castità: Viaggio nella Regia del Cinema Danese, da Dreyer a Dogma 95

La storia del cinema danese. Dallo stile trascendentale di Dreyer alla rivoluzione Dogma 95, scopri l'evoluzione della regia.

L'evoluzione stilistica della cinematografia danese, con un approfondimento sulla rivoluzione di Lars von Trier e Thomas Vinterberg e l'impatto globale del 'Voto di Castità'.

[di Massimo Righetti]

Mads Mikkelsen - Drunk (Thomas Vinterberg) 

Nella storia del cinema danese pulsa un'aritmia febbrile. Un battito irregolare scandito da ascese folgoranti, eclissi silenziose e rivoluzioni devastanti. Più che cronologia lineare, si tratta di un ciclo perpetuo di annichilimento e palingenesi: un dialogo convulso tra un realismo domestico, quasi intimo nella sua prossimità, e un'avanguardia determinata a scardinare le fondamenta del linguaggio cinematografico stesso. Dalle luci cesellate della sua Età dell'Oro – quando Copenaghen rivaleggiava con Hollywood come capitale europea del cinema – alla solitudine trascendentale del suo più visionario maestro, fino al grido iconoclasta di una generazione armata di videocamere tremule, la Danimarca ha utilizzato il cinema non soltanto per autorappresentarsi, ma per scomporsi metodicamente e ricomporsi sotto i nostri occhi. Questo è un viaggio dentro quello sguardo: un'esplorazione di come i cineasti danesi abbiano forgiato, e poi frantumato, i codici della rappresentazione.

L'Eleganza e il Declino: La Regia nell'Età dell'Oro

Nordisk Films Kompagni
All'alba del Novecento, la Danimarca non occupava le periferie dell'immaginario cinematografico, bensì il suo centro nevralgico. La Nordisk Films Kompagni, fondata nel 1906 da Ole Olsen, adottò un modello industriale votato alla serialità raffinata, specializzandosi in un genere che infiammava le platee continentali: il melodramma erotico. La regia di quell'epoca, incarnata da figure quali August Blom, era una regia dell'eccellenza formale assoluta. Lo stile si caratterizzava per una cura quasi pittorica, una qualità fotografica impeccabile e un uso dello spazio scenico che valorizzava interni sontuosi e la gestualità magniloquente dei suoi divi. Fu in questo contesto che nacque la prima stella del cinema europeo: Asta Nielsen, il cui corpo e la cui recitazione psicologicamente intensa in Afgrunden (1910) divennero emblema di una modernità inquieta e seducente. La regia si poneva al servizio della narrazione classica e del magnetismo dell'interprete, edificando un universo patinato e irresistibile. Tuttavia, questo trionfo, costruito su formule iterative, si rivelò una prigione dorata. Con il primo conflitto mondiale e l'emergere di cinematografie più aggressive, il modello danese collassò, incapace di reinventarsi.

La Voce del Maestro: La Regia Trascendentale di Carl Th. Dreyer

Mentre l'industria si sgretolava, una figura si stagliava in solitudine assoluta, tracciando una rotta opposta e controcorrente: Carl Theodor Dreyer. Se la regia dell'Età dell'Oro era estroversa e mercantile, quella dreyeriana fu interiore, rigorosa, quasi cenobitica. Fu un cinema dell'essenza pura, che ripudiava l'artificio nella ricerca di una verità spirituale incontaminata.

Ordet - Carl Theodor Dreyer
Il suo metodo registico si configurava come forma di ascetismo cinematografico abbandonando il montaggio serrato in favore di piani sequenza dilatati, dove l'obiettivo si muove con lentezza spettrale attraverso scenografie minimaliste, studiate in ogni dettaglio millimetrico. Il suo autentico campo d'indagine, tuttavia, rimase il volto umano. In capolavori come La passione di Giovanna d'Arco (1928), Dreyer trasfigurò il primo piano in cartografia dell'anima. Il viso privo di artifici di Renée Falconetti, scrutato in inquadrature estreme, divenne mappa di una sofferenza che trascendeva la parola. La sua non fu regia che descrive la realtà, bensì che la astrae per rivelarne la dimensione metafisica. Temi quali la fede, l'intolleranza e il martirio femminile – vittima di un'autorità patriarcale oppressiva – furono esplorati attraverso uno stile trascendentale. Con opere come Vredens dag (1943), allegoria velata dell'occupazione nazista, e Ordet (1955), Dreyer non generò eredi diretti, ma stabilì un polo di integrità artistica inviolabile: un punto di riferimento con cui ogni regista danese successivo dovrà inevitabilmente confrontarsi.

La Rivoluzione Dogma 95: Un "Voto di Castità" per Redimere il Cinema

Per decenni, il cinema danese si ritirò nel comfort rassicurante delle commedie popolari (folkekomedier), un cinematografo domestico per il mercato interno, punteggiato soltanto da bagliori di realismo sociale nel dopoguerra e da una timida "Nuova Ondata" negli anni Sessanta. Poi, nel 1995, esplose il sisma. Due registi, Lars von Trier e Thomas Vinterberg, scagliarono un manifesto che suonava come dichiarazione di guerra al mondo intero: Dogme 95.

Autoproclamatosi "atto di salvataggio", Dogme 95 costituiva una reazione violenta contro la cosmetizzazione del cinema, contro l'illusione, gli effetti speciali e la patina hollywoodiana. Il cuore pulsante del movimento risiedeva in un decalogo di precetti ferrei – il "Voto di Castità" – che ogni regista doveva giurare di osservare. Le regole rappresentavano un assalto frontale alle convenzioni registiche consolidate:

Festen - Certificato Dogme 95

  • Riprese esclusivamente in location autentiche, senza scenografie o oggetti di scena importati. Il vincolo obbligava il regista a rintracciare la verità nell'ambiente esistente, non a fabbricarla artificiosamente.
  • Macchina da presa rigorosamente a mano. Non si trattava di mera scelta stilistica, bensì di dichiarazione filosofica radicale. La regia perdeva la sua onnipotenza, la sua stabilità granitica. L'immagine tremula, instabile, quasi dilettantesca, immergeva lo spettatore nell'azione trasformandolo in testimone oculare spesso scomodo. Il film non si dispiegava più davanti all'obiettivo: era l'obiettivo a penetrare dove il film prendeva vita.
  • Suono esclusivamente diegetico e illuminazione naturale. Niente musiche extradiegetiche, niente fari. Se una sequenza risultava troppo buia, veniva eliminata. La regia doveva capitolare dinanzi alla realtà, non piegarla alle proprie esigenze estetiche. Il risultato era un'immagine cruda, granulosa, che restituiva un'autenticità quasi documentaristica.
  • Rifiuto dell'azione superficiale (armi, omicidi) e dei film di genere codificato. L'obiettivo consisteva nel concentrarsi sulla violenza psicologica, sui drammi interiori, senza le stampelle narrative dei generi convenzionali.
  • Il regista non doveva essere accreditato. Atto finale di spersonalizzazione, giuramento di "astenersi dal gusto personale" per trasformarsi in medium neutro della verità.

L'obiettivo supremo, come proclamava il manifesto, era "spremere la verità dai miei personaggi e dalle mie ambientazioni". I primi film del movimento realizzarono esattamente questo proposito, con brutalità sconvolgente.

Festen – Festa in famiglia (1998) di Thomas Vinterberg (Dogme #1) impiegò questa estetica per far deflagrare dall'interno una riunione familiare borghese, disvelando un abisso di abusi e ipocrisia. La regia vinterberghiana, claustrofobica e nevrotica, non si limitò a narrare il collasso di una famiglia: ce lo fece imprimere addosso con violenza fisica, rendendoci complici imbarazzati di una verità che tutti preferirebbero ignorare.

Idioterne - Lars von Trier
Ancora più radicale risultò Idioterne (1998) di Lars von Trier (Dogme #2), dove un gruppo di intellettuali si ribella alla società simulando disabilità mentali. Film provocatorio e ostico, che utilizza la regia Dogme per interrogare la natura stessa della rappresentazione e della normalità sociale.

Dogma 95 divenne fenomeno planetario, ultima grande rivoluzione del cinema europeo. Intercettò la democratizzazione innescata dal digitale, dimostrando che si poteva realizzare un cinema potente con risorse minime. Benché il movimento si sia ufficialmente dissolto nel 2005, trasformatosi paradossalmente in marchio commerciale, la sua onda d'urto rimane irreversibile.

L'Orizzonte Globale: La Regia Danese Contemporanea

Il cinema danese del XXI secolo è progenie diretta di quella rivoluzione. Sebbene i precetti siano stati abbandonati, lo spirito di Dogme persiste: fiducia incrollabile nella potenza della sceneggiatura, nella profondità dei personaggi e in un realismo intensificato. Questo ha generato una generazione di autori dal respiro internazionale, con poetiche registiche tanto diverse quanto immediatamente riconoscibili.

Lars von Trier ha abbandonato la crudezza dogmiana per un cinema diametralmente opposto: iper-controllato, formalista e brechtiano, organizzato in trilogie tematiche che esplorano la sofferenza attraverso immagini di bellezza glaciale (come Dogville, Melancholia). Thomas Vinterberg ha proseguito nell'esplorazione delle fratture comunitarie con un realismo psicologico più levigato ma non meno penetrante (Il sospetto, Drunk - Un altro giro). Susanne Bier si è affermata come maestra di un melodramma emotivo e cosmopolita, dove la sua regia si affida a primi piani estremi per creare istanti di intimità lacerante.

Ryan Gosling - Drive

E all'estremo opposto dello spettro, quasi in una deliberata rottura con il realismo che ha definito gran parte del cinema danese post-Dogme, si colloca la regia di Nicolas Winding Refn. Se autori come Vinterberg e Bier scavano nella realtà per estrarne il dramma, Refn la trascende, costruendo mondi onirici e iper-stilizzati. I suoi film, dalla cruda trilogia di Pusher (che pure anticipava il realismo dell'era Dogme) agli estetizzanti Drive (2011) e The Neon Demon (2016), sono esperienze sensoriali, ipnotiche. La sua regia è un esercizio di controllo formale assoluto, caratterizzato da composizioni ossessivamente simmetriche, lenti carrelli e angolazioni estreme. La sua tavolozza visiva è inconfondibile: colori fluorescenti, quasi accecanti, e contrasti netti, uno stile influenzato direttamente dalla sua acromatopsia parziale, che non gli permette di vedere i mezzi toni. A questo si aggiungono colonne sonore elettroniche, pulsanti e d'atmosfera, che contribuiscono a creare una qualità quasi onirica. La sua violenza non è mai documentaristica; è quasi astratta, una coreografia estetica dove il sangue si mescola ai colori saturi. È la dicotomia tra bellezza e brutalità , un'esplorazione della mascolinità e degli aspetti oscuri del comportamento umano attraverso un linguaggio che privilegia l'impatto visivo sulla verosimiglianza.

Da specchio di una nazione, il cinema danese si è trasfigurato in protagonista della scena mondiale. La regia non cerca più soltanto di riflettere un'identità, ma di esplorare la condizione umana con una sensibilità unica: spesso cupa, ironica e profondamente onesta. E oggi, mentre una nuova generazione annuncia un Dogma 25 per reagire all'era dell'intelligenza artificiale, quella aritmia febbrile continua a pulsare, testimonianza che in Danimarca il cinema non cessa mai di interrogarsi, di autodistruggersi e, infine, di rinascere.

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