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Una Figlia: Ivano De Matteo e Valentina Ferlan svelano il cuore del film al CineVillage Talenti

Incontro con Ivano De Matteo e Valentina Ferlan al CinéVillage Talenti. Un'analisi di "Una Figlia", dall'adattamento del libro al finale che scuote.

Un dialogo a cuore aperto sulla colpa, il perdono e i limiti dell'amore genitoriale. Dall'adattamento del romanzo di Ciro Noja alla potente interpretazione di Stefano Accorsi, un finale che scuote le coscienze.

[di Alex M. Salgado]



Nella cornice suggestiva dell'arena estiva del CineVillageTalenti a Roma, una serata di cinema si è trasformata in una profonda sessione di analisi collettiva. Dopo la proiezione di Una Figlia, l'ottavo lungometraggio di Ivano De Matteo, il regista e la sua co-sceneggiatrice Valentina Ferlan, moderati da Massimo Righetti, hanno dialogato con il pubblico, svelando il processo creativo e le complesse scelte etiche dietro un'opera destinata a lasciare il segno.

Il film, presentato in anteprima al Bari International FilmFestival 2025 e uscito in sala il 24 aprile, si immerge in una delle domande morali più abissali: cosa faresti se tuo figlio commettesse un crimine terribile? Attraverso la storia di Pietro (un magistrale Stefano Accorsi) e sua figlia Sofia (l'autentica rivelazione Ginevra Francesconi), De Matteo non cerca risposte facili, ma, come da lui stesso dichiarato, raccoglie la "chiave gettata" per entrare nel cuore di un dramma che è insieme intimo e universale.

Le radici di una storia necessaria

Il punto di partenza, come emerso durante l'incontro, è duplice. Da un lato, l'ispirazione "liberamente" tratta dal romanzo Qualunque cosa accada di Ciro Noja. Dall'altro, una riflessione innescata dalla figura del padre di Erika, la cui incrollabile vicinanza alla figlia ha profondamente colpito gli autori nel caso di Novi Ligure.

"Il libro è stato lo spunto di un qualcosa che volevamo raccontare da quando ascoltammo l'intervista del papà di Erika, l'intervista in cui lui diceva che Erika 'rimane sempre mia figlia'", ha spiegato De Matteo. "Lui disse 'anche se ha fatto questo, rimane sempre mia figlia'. Quindi ci siamo un po' – non direi messi nei panni di loro perché è molto complesso, è quasi impossibile – però ho detto: cerchiamo di raccontare una famiglia che il dramma ce l'ha dentro in questo modo."

La scelta di affrontare questi temi difficili nasce da una necessità artistica e umana che il regista non nasconde: "Raccontare una storia che tutti vogliono sentirsi dire sarebbe come lo specchio di Biancaneve. Già siamo presi abbastanza in giro tutti i giorni dai social, dove cancelliamo quello che non ci sta bene e lasciamo solo i commenti che ci piacciono. A me ogni tanto serve qualcuno che mi sbatta in faccia un po' di realtà."

Una modifica cruciale: dall'orrore all'empatia

La decisione più delicata è avvenuta in fase di scrittura. Il romanzo originale è ancora più brutale: la protagonista non solo uccide la compagna del padre, ma anche il fratellino neonato. Una scelta narrativa che De Matteo ha subito voluto modificare, distinguendo tra "un omicidio di impeto, mentre quello [di Novi Ligure] era un omicidio premeditato".

La sceneggiatura ha scelto deliberatamente di eliminare l'infanticidio, una modifica fondamentale che Valentina Ferlan ha così motivato: "Nel libro la protagonista è molto più violenta. Noi invece siamo partiti da un reato che può commettere chiunque. Mantenerla così terribile avrebbe reso impossibile riuscire a stare sia con lei, a far comprendere e a far stare anche un pochino dalla parte sua. La cosa che ci interessava è proprio la tenerezza del rapporto tra questo padre e questa figlia, nonostante l'accaduto."

Un percorso autoriale coerente

Il film si inserisce organicamente nel percorso artistico della coppia De Matteo-Ferlan. Come ha rivelato la sceneggiatrice, l'idea è nata anche dai dibattiti seguiti alle proiezioni di Mia: "È come se quasi una storia avesse portato all'altra. Qualche cosa che c'è rimasta dentro, di punti interrogativi del film precedente che abbiamo detto 'va bene, ma tentiamo di risolverlo col successivo'."

La domanda ricorrente del pubblico era sempre la stessa: "Ma il padre del ragazzo, il padre del cattivo, perché lo difende? E quindi perché non fare un film su quel padre?". De Matteo ha confermato questa genesi: "Quando ho partecipato agli incontri col pubblico per il mio film precedente Mia, in molti chiedevano: ma il padre del ragazzo cattivo? Cosa fa? Come reagisce? Gli rimane vicino o lo abbandona? Sotto il segno di questi interrogativi è nato Una figlia."

Il regista ha anche chiarito la sua visione complessiva: "Una figlia è più vicino a I nostri ragazzi che non a Mia, è una sorta di sequel, racconta il dopo, il carcere minorile. Inoltre, volevamo raccontare la famiglia del 'cattivo'. Mia in qualche modo era più facile, lei era la vittima e quindi tu empatizzavi di più. In Una figlia abbiamo cercato di scardinare ancora di più le nostre sicurezze."

Rigore documentaristico e autenticità emotiva

Questo rigore tematico è sostenuto da un approccio stilistico che De Matteo àncora a una meticolosa documentazione. "Mentre lei scrive, io vado a parlare col giudice, vado a parlare con la polizia, con l'assistente sociale, poi torno a casa e andiamo a ritoccare le varie cose", ha raccontato, descrivendo il loro metodo di lavoro simbiotico.

L'autenticità rappresenta un punto non negoziabile, specialmente nella rappresentazione del carcere minorile: "Noi abbiamo seguito un protocollo classico. Non potevo raccontare cose false, altrimenti non mi avrebbero invitato a proiettarlo a Casal del Marmo." Il regista ha voluto essere rispettoso verso un mondo complesso: "Per quanto riguarda la parte interna al carcere, non salvo e non demonizzo. Cerco di mantenere il rispetto delle persone che stanno vivendo una parte della loro vita segregate lì dentro."

L'autenticità si estende fino ai dettagli sonori, dove il suono diventa protagonista: "C'è una colonna sonora fatta di rumori, dei cancelli, delle battiture dei ferri quotidiane. Perché nel carcere la cosa che fa impressione sono i rumori ripetitivi dei ferri e dei catenacci." Un dettaglio che è stato particolarmente apprezzato da una spettatrice tra il pubblico, ex-operatrice penitenziaria.

Le interpretazioni: Accorsi e la rivelazione Francesconi

Il cuore pulsante del dramma poggia sulle interpretazioni di Stefano Accorsi e Ginevra Francesconi. De Matteo ha confessato di aver cercato per il ruolo di Pietro "un altro Edoardo Leo", un attore affermato su cui fare una scommessa, e il risultato è stata una sinergia eccezionale.

La scelta della giovane Francesconi è stata altrettanto azzeccata, nonostante sia arrivata a un mese dalle riprese dopo un provino che ha convinto immediatamente. L'attrice ha dovuto affrontare un ruolo denso di sfaccettature delicate, in un percorso che il regista descrive come "tutto il percorso che parte dal commissariato per arrivare al centro di accoglienza, poi al carcere e infine alla comunità."

Un finale che divide e interroga

Ivano De Matteo, Valentina Ferlan
Forse il momento più dibattuto della serata è stato il finale. Dopo un percorso straziante, a Sofia viene offerta la possibilità di vivere in una casa protetta con suo padre e la bambina che ha avuto in carcere. Molti spettatori si erano "placati" all'idea di questa soluzione consolatoria. Ma Sofia rifiuta.

Una scelta difficile da accettare, che Valentina Ferlan ha motivato con lucida determinazione: "Lei ha fatto qualcosa a lui. Avrebbe sempre questo lui dentro casa. Ora quello che è successo per il momento è incancellabile. È un percorso da fare in solitaria."

De Matteo ha rafforzato il concetto, esponendo la sua poetica che rifugge le facili consolazioni: "Per noi non poteva che finire così. Noi, in questo film, lavoriamo sulla riparazione, che è un termine tecnico che si usa nelle carceri minorili. Cioè riparare qualcosa che è rotto, per gli altri ma soprattutto che è rotto dentro te stesso, è una messa alla prova."

Ha poi usato come esempio il finale che consapevolmente non ha voluto per Mia: "Sarebbe bello che Mia a un certo punto si sveglia, la troviamo a pallavolo che fa la schiacciata, che segna, che il papà esce dopo un mese dal carcere, si incontrano, mangiano la pizza con la moglie, si baciano. Mi piacerebbe fosse quello, però dopo noi diciamo 'però in realtà poi non è mai così, è difficile che diventa questo'."

Il peso della ricerca e la necessità di una pausa

L'intensità emotiva di questi progetti non passa inosservata agli stessi autori. Come ha ammesso De Matteo: "È doloroso e quando scriviamo, lo sentiamo molto. Infatti con la mia compagna abbiamo deciso di fermarci per un po' rispetto a questi temi. Ci stiamo proiettando su altri racconti, una commedia amara, una critica tagliente, sul genere della vecchia commedia italiana."

Il regista ha descritto il processo creativo come un'immersione totale: "Quando scriviamo siamo veramente immersi nella storia e ci fa male, anche perché abbiamo dei ragazzi dentro casa ed è pesante. Anche entrando nel centro di prima accoglienza o nel commissario, nel carcere, nella comunità di recupero, si vedono tante realtà: la ragazza che esce dal carcere, quella che è stata tolta ai genitori, quella che ha crisi isteriche."

Questa esperienza diretta ha lasciato un segno profondo: "È un mondo che fa molta tenerezza e in cui sono entrato in punta di piedi e ringrazio tutti quelli che mi hanno permesso di entrare."

LEGGI LA NOSTRA RECENSIONE: https://www.lucisullascenamag.it/2025/04/una-figlia-di-ivano-de-matteo-lamore.html

Un cinema che non consola ma illumina

Una Figlia si conferma un'opera che non accarezza, ma scuote; non offre soluzioni, ma costringe lo spettatore a confrontarsi con la propria coscienza. L'incontro al CinéVillage Talenti ha illuminato la coerenza e il coraggio di un autore che, ancora una volta, usa il cinema per interrogare le crepe della nostra società.

Come ha sottolineato lo stesso De Matteo: "Io credo che i ragazzi abbiano bisogno di guardare cose vere, non ritoccate, perché se edulcori le cose fai più danni, non li prepari alla realtà." Una filosofia che si estende anche al pubblico adulto, chiamato a fare i conti con domande scomode ma necessarie.

Il film si consacra così come una delle voci più lucide e necessarie del cinema italiano contemporaneo, confermando De Matteo e Ferlan come una coppia autoriale capace di trasformare il dolore in arte, la cronaca in riflessione universale, il disagio in opportunità di crescita collettiva.

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